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Doha, la città che galleggia sull'oro nero (19/12/2010)

Aggiornamento: 16 ago 2023


Skyline di Doha

Una città artificiale che sorge sul Golfo Persico e galleggia sul petrolio. Uno sceicco che adora lo sport e la comunicazione. Che finanzia i principali eventi sportivi del mondo e che è riuscito anche ad accaparrarsi l’organizzazione dei Mondiali di Calcio del 2022. Viaggio in Qatar, un Paese che si candida a rappresentare il modello dell’ordine futuro: denaro e pochi diritti umani. Eppure l’occidente pare non disprezzare.


1. DOHA (Qatar, 16/12/2010) - Se pensavi che leggere una cartina geografica sia cosa da niente, prova a darla a un autistdi Doha e vedrai che succede... Il guaio è che sono tutti molto cordiali e così nemmeno puoi arrabbiarti. Ti tocca prenderla così, guardandoti intorno in una città di mezzo milione di abitanti dalle molte espressioni: la skyline dei grattacieli di Doha City, le lunghissime strade diritte affogate nel color ocra-terra e nel traffico delirante, e le costruzioni basse e tipicamente arabeggianti della zona sud - est e della periferia, dove lo spazio non ha valore, visto che l’agglomerato è un’oasi nel deserto del Qatar, dove ci si può allargare a perdita d’occhio. C’è poi una specie di centro storico, con tanto di suk, che pare costruito con la tecnica del vintage per dare una certa età a costruzioni che età non hanno, qualcuno ha detto che somiglia al villaggio arabo di Gardaland. Ecco, una roba del genere. La modernità mediorientale è anche questo: blackberry e suv per tutti in una cornice musulmana wahabista (molto rigida) dove le donne indossano il velo e l’abaya neri, magari decorato con delle fettucce intarsiate del color dell’oro, ma in compenso possono votare ed anche essere votate alle elezioni. Cosa non da poco, a queste latitudini. Del resto è la cifra del Qatar creata dallo sceicco Hamad bin Kahlifa al Thani: modernità, modernità, modernità. Nel 1998, durante un discorso alla Georgetown University, proprio lo sceicco (che da poco aveva preso il potere detronizzando il padre) aveva pronunciato per la prima volta una frase di John F. Kennedy: «Chi non sa rendere possibili le rivoluzioni pacifiche, rende inevitabili quelle violente». Ora pare sia diventata il suo slogan. Con i proventi di petrolio e gas che hanno reso il piccolo stato (11 mila metri quadrati per 1.597.552 abitanti) il secondo al mondo per ricchezza pro capite (dopo il Liechtenstein) e per crescita economica (dopo la Cina), ha fatto miracoli. Ha creato la televisione Al Jazeera (nel 1996) che ora si contende il primato delle news mondiali (la versione inglese trasmette da Doha, Londra, Kuala Lumpur e Washington. Ha dato il voto alle donne. Ha sviluppato un turismo congressuale di prima grandezza ed un aeroporto che non finisce più e appena atterri ti tocca fare cinque minuti in pullman per arrivare al ritiro bagagli. Ma il miracolo più grande lo ha fatto riuscendo a conquistarsi a suon di bigliettoni la stima della Fifa e il mondiale di calcio 2012. Ma come? Il mondiale di calcio in una nazione dove lo sport principe è la corsa dei cammelli (sabato ce ne dev’essere una spettacolare, in occasione della Festa nazionale) e la falconeria?

Esatto! Perché da un po’ la Doha sportiva non è solo corsa dei cammelli. Qui corrono anche le moto Gp, giocano a tennis i mostri sacri in uno dei tornei più ricchi del circuito, vengono a sfidarsi i migliori pallavolisti e contendersi il titolo iridato per club. Qualche tempo fa hanno giocato qui l’amichevole di lusso Brasile - Argentina. Parliamo di football, of course. E anche se fa caldo, il problema qual è? Lo stadio ha l’aria condizionata (come ogni luogo, qui) che permette ai giocatori di correre a 24 gradi Celsius. Uno spettacolo, no? Coi soldi si può fare tutto, pare voler ribadire il diritto acquisito di organizzare un campionato mondiale di calcio. Anche se, forse, sarà necessario per allora aggiornare gli autisti. O dotarli di satellitare. Quanto costerà? Chissenefrega.

[Pubblicato sul quotidiano L’Adige del 17 dicembre 2010 a pagina 55 con il titolo “Modernità da sceicchi”, e l’indicazione “dall’inviato Maurilio Barozzi”. Fa parte di una serie di reportage da Doha (Cartoline da Doha) scritti in occasione del Campionato mondiale per club di volley].





2. DOHA (Qatar, 17/12/2010) - «Mentre lo intervistavo, un bonzo si diede fuoco in diretta. Rimasi indeciso se salvarlo o semplicemente testimoniare con le immagini quel gesto consapevole e estremo. Sono un giornalista, pensai. E lo lasciai fare». La frase (cinica o professionale?) di Peter Arnett è rimasta nella storia soprattutto perché rappresentava un’immagine della Guerra del Golfo e perché il cronista dell’americana Cnn era l’unico giornalista ammesso sul campo di azione a raccontare quella guerra. Era il 1991: molti pensavano che quella potesse rimanere la forma più estrema di giornalismo. E la Cnn un colosso insuperabile. Poi Arnett cadde in disgrazia per una faccenda di soldi sottobanco (eh, l’uomo è sempre uomo, altro che bonzi in fiamme); per la Cnn, viceversa, sopraggiunse una inaspettata novità. Nel 1996 irruppe sulla scena mediatica una concorrente potentissima: Al Jazeera. Tanto potente, economicamente forte e internazionalmente autorevole che nel 2001 a raccontare la caduta dei talebani non c’erano né Arnett né la Cnn, ma Tayssir Alluni, reporter di Al Jazeera.

Al Jazeera fu creata dal niente a Doha, nello staterello del Qatar, moderna Lilliput geografica, quasi fosse un capriccio di onnipotenza dallo sceicco Hamad bin Kahlifa al Thani. Tuttavia, capriccio o meno, è diventata un colosso. Tanto che i responsabili oggi pubblicizzano un sondaggio internazionale di alcuni anni fa che colloca il marchio al quinto posto tra i più noti e influenti al mondo, dopo Apple, Google, Ikea e Starbucks. Niente male per un capriccio, no? Certo, senza i verdoni arrivati da petrolio e gas manco ci si poteva pensare. Però quelli lo sceicco Hamad li aveva e, con un investimento di partenza di 130 milioni di dollari nel 1996 - e un’immissione di liquidità costante di un’altra trentina ogni anno -, è riuscito a realizzare quel capriccio. decollato in un batter d’occhio. Ha ospitato il primo discorso di Saddam Hussein dopo i bombardamenti americani, la prima (auto)intervista con Osama Bin Laden fino all’Afghanistan. Scoop dopo scoop, la tivù di Doha è divenuta il punto di riferimento (piuttosto controverso) del mondo arabo.

Oggi Al Jazeera ha un canale internazionale anche in inglese, trasmette - oltre che dal piccolissimo Qatar - anche da Londra, dalla Malaysia e dagli Stati Uniti. E si è dotata di un robusto apparato nel campo dello sport. Che, come per tutto il Qatar, diventa una sorta di cavallo di Troia a rovescio con cui aprirsi al mondo. L’altro motivo di vanto per i vertici di Al Jazeera è quello di essere considerati il più indipendente mezzo di comunicazione di tutto l’universo arabo. Certo, i soldoni di partenza e quelli con cui sono foraggiati dallo sceicco Hamad, non depongono troppo a favore di questa tesi, ma a fronte del quotidiano in lingua araba Al-Raya, quantomeno non pare annegare nel culto della personalità della famiglia reale. Sul numero di giovedì, infatti, la prima pagina di Al-Raya era seguita da ben 16 (sedici!) pagine di pubblicità quasi tutte coronate dalle fotografie dello sceicco e il figlio. Prima che a pagina 17, arrivasse finalmente la prima notizia. Ieri, in compenso, Al Raya, come gli altri due quotidiani in lingua inglese del Paese (Gulf Times e Qatar Tribune) dedicavano grande spazio al volley, al «loro» campionato del mondo per club e alla Trentino BetClic volley che - con prestazioni mirabolanti e grazie a un robusto gruppo di tifosi - lo tiene in piedi. Per il colosso Al Jazeera, addirittura un canale dedicato, il secondo.

Se qualche italiano ritenesse comunque che con i soldi non si può ottenere tutto, pensi nell’ordine: di guardare prima in casa propria e, casomai, a non venire a far prediche del genere proprio qui, dove Amnesty International denuncia spesso la violazione del diritto di espressione. Chissà cosa accadrebbe a chi si mettesse a sbraitare sostenendo che vige la censura. Sarebbe come parlare di corda in casa dell’impiccato.

[Pubblicato sul quotidiano L’Adige del 18 dicembre 2010 a pagina 64 con il titolo “Nella patria mediatica di Al Jazeera”, e l’indicazione “dall’inviato Maurilio Barozzi”. Fa parte di una serie di reportage da Doha (Cartoline da Doha) scritti in occasione del Campionato mondiale per club di volley].





3. DOHA (Qatar, 18/12/2010) - Nel giorno della festa nazionale del Qatar, il Mondiale di volley si ferma. In compenso non si ferma il traffico. Se possibile, in questi giorni Doha è ancor più caotica del solito. La festa nazionale viene celebrata sulle strade. Con parate di mezzi militari e beduini sui cammelli, il mattino. Caroselli di automobili, la sera prima e durante tutto il giorno. Come se il Qatar avesse vinto il mondiale di calcio, per capirci. Da una parte è ben vero che i loro mondiali li hanno già vinti, soltanto per il fatto di organizzarli nel 2022, ma il delirio urban-viario di ieri evoca più un trionfo popolare che una ricorrenza storica. Da un giorno e mezzo si vive assordati da clacson e petardi che sovrastano anche la voce che dalle moschee richiama i fedeli alla preghiera. E attraversare la strada può diventare un problema, se non si intende approfittare dei momenti in cui le colonne d’auto si fermano. Seduti o in piedi sui tetti delle macchine, giovani con camicione bianco e turbante sventolano la bandiera bianco-granata. Alcuni indossano agghiaccianti parrucche altri, sempre in eroico equilibrio sulle capote, si esibiscono in strane coreografie con le scimitarre. Le stesse auto sono il trionfo del kitch, dipinte ad hoc con spray colorati e la scritta «Qatar» o con gigantografie dello sceicco Hamad e del suo rampollo Mohammed appiccicate sui parabrezza. Tra parentesi, mi chiedo, come faranno i guidatori a vedere la strada? Il problema non pare turbarli: procedono incolonnati per ore lungo la via che costeggia il Golfo Persico e strapazzano il clacson senza tregua. Qualcuno lancia petardi. Altri ci danno dentro con solenni sgasate e assommano al casino anche un gran puzzo di benzina. Che qui pare non essere nociva. Certamente non preoccupa per il costo, vista l’abbondanza di materia prima su cui posano il sedere. Per dire: pullman e taxi sostano in attesa di clienti sempre rigorosamente accesi. Magari senza autista dentro, però accesi.

Ecco, un’altra cosa che da queste parti non temono sono i furti. Anche se il sistema per evitarli non pare propriamente figlio di una cultura di legalità del luogo, quanto piuttosto della ricchezza che ogni qatarino - dal tempo della pesca di petrolio e gas, grosso modo il 1939 - può vantare. Per controllare i due terzi della popolazione costituita da immigrati - maestranze dei lavori pesanti e umili -

è in voga un sistema non troppo liberale: il ritiro preventivo del passaporto. Un italiano, licenziato dall’Alitalia ed emigrato in Qatar per lavoro (ah, le bizzarrie della globalizzazione!), l’altro giorno era a vedere la partita della Trentino Volley, giusto per sentirsi un po’ a casa. E raccontava che a molti lavoratori immigrati viene ritirato il passaporto per tutto il tempo della durata del contratto d’impiego, e restituito solamente al termine dello stesso. Questo per evitare che lo abbandonino prima (il lavoro) oppure che facciano qualche fesseria. Insomma sono inchiodati alla penisola del Golfo Persico da una sorta di catena invisibile, indissolubile e tristemente moderna.

Tornando alla festa nazionale, sono i qatarini a sfilare. Sotto gli occhi e gli obiettivi di cingalesi, egiziani, malesi che li osservano da bordo strada. Loro - ammesso che viaggiare sulla capote di un'auto brandendo la scimitarra sia divertente - non partecipano alla parata. Contemplano questi allegri signori volteggiare su fiammanti Toyota, Mercedes o Porsche Cayenne che per l’occasione vengono anche temporaneamente violentate con spray e manifesti. Festeggiano lo storico 18 dicembre 1878, quando lo sceicco Jassim Bin Mohammed Bin Tahmi, considerato il fondatore del Qatar, successe a suo padre e mise le basi per l’indipendenza dello stato. Allora erano poveri in canna e senza speranza, vista la posizione geografica che li cuoce tutto l’anno sopra roventi pietre color ocra. Le uniche loro risorse venivano dal mare, da dove pescavano perle, ma non era molto. Però evidentemente credevano nelle loro forze: anni dopo arrivarono le battaglie con ottomani e turchi, il protettorato britannico, dunque il petrolio, la ricchezza e, nel 1971, l’indipendenza definitiva. Ma proprio il 18 dicembre 1878 è stato scelto come data simbolo. E così oggi lo sceicco Hamad (discendente di Mohammed) gode. Si compiace di veder sbucare le sue gigantografie con tanto di bei baffoni neri in ogni dove, sotto il garrire delle bandiere biancogranata, alla luce dei fuochi d’artificio che illuminano di mille colori la notte di Doha. Venerato e osannato da aerei da guerra, soldati in uniforme e automobilisti mezzo tamarri. A proposito, non ditelo troppo in giro, in Italia. Conosco almeno un paio di persone che adorerebbero prendere esempio.

[Pubblicato sul quotidiano L’Adige del 19 dicembre 2010 a pagina 53 con il titolo “Caos, caroselli e scimitarre”, e l’indicazione “dall’inviato Maurilio Barozzi”. Fa parte di una serie di reportage da Doha (Cartoline da Doha) scritti in occasione del Campionato mondiale per club di volley].





4. DOHA (Qatar, 20/12/2010) - E così ora l’idea è stata anche messa su carta. Mi riferisco di giocare i mondiali di calcio del 2022 in Qatar d’inverno. L’inverno boreale, naturalmente. Lo ha detto prima Beckenbauer, l’ha ripetuto Platini. Ora lo dice, sommessamente come è suo costume - mai sbilanciarsi troppo, politica docet - pure Blatter. Hanno capito, alcuni giorni dopo averli assegnati al Qatar ufficialmente, che qui l’estate è un caldo boia. Okay, cingalesi, indonesiani, pakistani lavorano lo stesso. Ma il caldo è opprimente. Anche 50 gradi. E allora, hai un bel dire che tanto i progetti degli stadi che ha presentato l’emiro hanno l’aria condizionata e si giocherà a 24 gradi. Ma poi? Un mese di ritiro per le squadre in una pietraia incandescente con gli allenamenti da fare e tutto il resto: a 40, 50 gradi è un po’ improbabile. Dunque si pensa all’inverno, cioè questo periodo. Beh, per il clima la cosa potrebbe funzionare: si arriva attorno ai trenta gradi a mezzogiorno, ma la sera è fresco e si potrebbe anche risparmiare il condizionatore dello stadio. Anche se non è certo il risparmio l’ambizione dell’emiro. Il fatto è che giocare d’inverno significherebbe stravolgere campionati e coppe europee, e questo ha fatto inorridire i più. Che però non pensano al fatto che finora molti altri hanno avuto - e hanno - lo stesso problema. In Brasile, ad esempio. Dove, con la proverbiale soavità di una bossanova, hanno tranquillamente risolto il problema: il campionato va avanti. E buonanotte. Sì, ma ormai tutti i giocatori brasiliani della nazionale sono in Europa, obietta il più furbo. Fingendo di non accorgersi che quell’«ormai» implica che fino a qualche tempo fa non era così. L’Eurocentrismo a volte è difficile da scalfire. Comunque: i mondiali in Qatar. Qui è una festa. Sulle vetrine dei negozi, appiccicate alle bancarelle, sui vetri delle macchine trionfa l’effige dello sceicco Hamad bin Kahlifa al Thani in abito blu che con un sorriso a trentasei denti sorregge la coppa Rimet. È la sua vittoria, prima di tutto. La vittoria di chi, grazie a petrolio e gas naturale a bizzeffe, ha reso il suo paese più moderno e si è fatto conoscere in tutto il mondo. Cosa alla quale pare tenga molto, a giudicare dal fatto che - oltre a quella con la Rimet - in ogni dove si trova la foto sua e del rampollo (stavolta con il turbante bianco). La creazione a suon di milioni di dollari della televisione Al Jazeera ne è un altro esempio. E la stessa grande ospitalità che lo sceicco offre allo sport lo conferma ulteriormente: un gran premio di Moto Gp, il torneo Atp Exxon Mobil Open di tennis più il master femminile, i Giochi asiatici di atletica, i mondiali per club di volley, la coppa del mondo under 20 di calcio e nel 2022 i mondiali, illustrano il desiderio che il mondo gli faccia visita per vedere quanto è bravo. Che lui stesso si esibisca in gare in motoscafo potremmo invece pensare che sia solo una passione sportiva, anche se il fatto che ne vinca pure qualcuna, lascia molti dubbi... Guardando bene: che ragione avrebbe un turista per venire a Doha, senza questi richiami? Una città-cantiere dove si lavora anche la notte con le gru illuminate a giorno e in un batter d’occhio si costruisce un edificio. Se serve anche fintamente invecchiato. Già, fintamente. Perché qui a Doha non esistono cose vecchie: quando si è stufi, si abbatte. O, più generosamente, si esporta. Si regala, come si farà con gli stadi dopo i mondiali. Dal suo punto di vista, lo sceicco è davvero una persona generosa. Quando può aiuta, anche all’estero. Salvo poi, al giusto momento - e il momento è arrivato ai primi di dicembre di quest’anno, ad esempio - incassare a sua volta i frutti della beneficenza. Avrebbero qualche cosa da dire sulla liberalità dello sceicco probabilmente anche i lavoratori stranieri. A Doha rimangono il tempo della durata del contratto, guadagnano un po’ di soldi, e poi se ne vanno. Ma non possono farlo prima. Mi spiega Abdul Rob, del Bangladesh, che si occupa di sicurezza in un parcheggio: «A me, come a tutti i lavoratori stranieri, la compagnia per cui lavoro prende il passaporto. E questo mi viene restituito solo al termine del contratto di lavoro. Se, per qualche emergenza, devo tornare al mio Paese, posso chiederlo alla compagnia. Se a loro la cosa aggrada, bene. Altrimenti devo stare qui. Non mi sembra un buon sistema. Io sono qui da due anni. Ho il contratto per altri due, poi si vedrà». Stessa cosa dice Esperanza, filippina, receptionist in un hotel: «Ero a lavorare a Dubai e ora sono qui a Doha. Ho un contratto per un anno e poi mi restituiranno il passaporto. Così penso che me ne tornerò a Dubai: qui è tutto morto, non c’è vita. Guarda», scuote la testa indicando la strada assolata e vuota nel tardo pomeriggio.

Forse coi mondiali forse qualche cosa cambierà, sia per il loro passaporto che per la vita su quella strada. Se sarà d’inverno. Altrimenti ho qualche dubbio.

Come qualche dubbio instilla ciò che potrà lasciare nella storia una civiltà come questa, arricchitasi da poco in maniera spaventosa, che costruisce e disfa tutto nello stesso tempo di una sgasata di automobile o di motoscafo. Senza che ci sia il tempo di sedimentare, di ripensare, di interiorizzare. Insomma, senza che qualcosa riesca a diventare il duro su cui si costruisce una vera cultura.

[Pubblicato sul quotidiano L’Adige del 21 dicembre 2010 a pagina 49 con il titolo “Febbre da Rimet”, e l’indicazione “dall’inviato Maurilio Barozzi”. Fa parte di una serie di reportage da Doha (Cartoline da Doha) scritti in occasione del Campionato mondiale per club di volley].





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