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Immagine del redattoreMaurilio Barozzi

Guerra e Guernica (9/5/1999)

Aggiornamento: 16 ago 2023


Guerra. Senza di lei, la storia presenta pagine bianche.

Guerra. Non è che il proseguimento della politica con altri mezzi.

Guerra. Non un atto di barbarie, ma la sacra prova che impone il destino dei popoli.

Rispettivamente: Hegel, Von Clausewitz e Von Treitschke. Tre punti di vista (peraltro abbastanza diversi tra loro), cosiddetti realisti: la guerra è un mezzo per arrivare al fine, descritto ancora dal barone Von Clausewitz, di «costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà».

A questa freddezza si contrappone un altro metodo per osservare la guerra: quello che si sofferma sugli effetti che essa produce. Perché è un mezzo, d’accordo. Ma un mezzo devastante. E pertanto è condannato a priori da questa seconda scuola di pensiero. Il ripudio dello strumento della guerra dovuto al sentimento di ripugnanza per la violenza, come diceva padre Ernesto Balducci, fa parte di un approccio che si suole definire idealista. Sono due criteri analitici diametralmente opposti, radicali. In mezzo: il mare magnum.

Sessantadue anni fa, precisamente il 26 aprile del 1937, i tedeschi alleati di Francisco Franco, bombardarono la città basca di Guernica, nel nord della Spagna. Bombe lanciate dagli aerei, proprio come quelle che - finora - stanno piovendo quotidianamente da oltre un mese sulla testa dei cittadini jugoslavi. Meglio di molte foto e immagini, molto meglio di infinite parole, Pablo Picasso descrisse la brutalità e le demoniache conseguenze di tali bombardamenti nella sua opera forse più celebre: Guernica. La guardi e c’è dentro tutto. Proprio tutto. Con la capacità di attraversare il tempo che solo un quadro può possedere (la foto è per definizione istantanea) quell’immagine riesce a esprimere la morte, la sofferenza, l’orrore e lo sbigottimento. Ma anche il simbolo di speranza che incarna chi arriva dopo e vede il disastro, quasi incredulo. E tutto genera dalla luce. Un contrasto fortissimo scaturisce dalle due fonti di illuminazione del dipinto: quello del bagliore elettrico, orizzontale come i segni di morte rappresentati nel disegno, metafora della bomba che permea di dolore ciò che irradia: la madre del bimbo ucciso; il cavallo; il toro; la colomba che - nonostante sia simbolo di pace - viene rappresentata nera, tagliata da una sola scintilla di bianco, quella della bomba. Poi la donna che tenta di fuggire disperata; il soldato a terra, dilaniato. La tragedia, il disastro. Guernica è un bombardamento aereo; Guernica è la guerra. Ma Guernica è anche la luce del lume tenuto da una figura indefinita, dal volto di donna. Ha i capelli sciolti che svolazzano sospinti nell’immagine dall’aria, attraverso una finestra. E si trasformano nel braccio che regge la candela. Una luce calda illumina la donna inginocchiata che così trova la forza di rialzarsi, di rimettersi in piedi. Di sopravvivere. La guerra è anche questo: sperare in qualcuno, avere un aiuto.

Picasso, però, fece qualche cosa di più. Non era un cronista, lui. Era un artista. Il suo dipinto non può essere semplicemente letto come una raffigurazione - per quanto carica di significato - di quello che è stato. Lancia un messaggio, senza tempo. Nella mano del guerriero a terra, morto, c’è ancora stretta l’elsa di una spada spuntata e da quella mano, illuminato dalla luce vitale della candela, nasce un germoglio, sboccia la vita. Un soldato che si presuppone essere un oppositore al regime nazionalista di Francisco Franco, lotta e muore. E dalla mano che ha combattuto contro il fascismo spunta un fiore, simbolo della bellezza, della vitalità, della purezza. Guernica: realismo e idealismo.

Ora, e vengo al punto, se anche un intellettuale che si è speso in tutti i modi per la pace (partecipando a diversi congressi mondiali e creando La Colomba della pace e La guerra e la Pace) ha disegnato un fiore nella mano che impugna la spada, l’idea è chiara: nonostante tutto, combattere non è sempre sbagliato. La faccenda sta tutta nel fine, dunque il motivo per il quale si è disposti a battersi. Soffermarsi - ragionando - solo sulle conseguenze prodotte dalle bombe, certamente è sensato, ma non risolve il problema di fondo, esistenziale e nel contempo terreno; ideale e concreto: quando e per quali ragioni sono disposto a battermi? Qual è, in altri termini, alle soglie del Duemila, la guerra che può essere definita giusta?

Carl Schmitt, nel monumentale Il nomos della terra, definì «giusta nel senso del diritto internazionale [..] ogni guerra interstatale che sia condotta da eserciti militarmente organizzati appartenenti a Stati riconosciuti dal diritto internazionale [..]». Più avanti nello stesso libro, l’autore sostenne che una giustizia internazionale che stabilisca quale sia la causa giusta, e che le permetta di trionfare, ancora non è data. Le discussioni odierne confermano tale sensazione, ribadendo ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, che gli aggettivi contrapposti giusto o ingiusto applicati ad una medesima situazione sono - paradossalmente - intercambiabili a seconda del tempo e del luogo in cui la situazione in oggetto viene discussa.

Viceversa, i concetti di dominio, di diversità, di guerra, sono presenti - e chiaramente connotati - nell’umanità dalla notte dei tempi. Nell’Antico Testamento il termine dominio compare già nella seconda pagina della Genesi (I, 26) e la diversità fu voluta a tutti i costi da Dio che, quando vide gli uomini in armonia capaci di costruire una torre che avrebbe potuto arrivare fino al cielo, disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una sola lingua; questo è l’inizio della loro opera e ora non sarà loro impossibile tutto ciò che hanno meditato di fare. Orsù! Discendiamo e confondiamo laggiù la loro lingua, così che essi non comprendano più la lingua l’uno dell’altro». Allora Jahve (Dio) li disperse di là sulla faccia di tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città (Genesi II, 6-10). E poi, dalla separazione di Abramo e Lot, per i territori iniziarono le guerre. Tanto naturalmente che il Libro nemmeno deve spiegarle (si veda Genesi XIV). Insomma: è l’indole umana ad essere conflittuale. L’unica cosa che si può davvero pensare è di regolare questa caratteristica, per evitare che essa diventi catastrofica. E’ illusione pretendere di risolvere le questioni (frutto di diversi interessi concreti - di tutte le parti in causa - maturati su un territorio preciso) sopravvalutando le qualità demiurgiche del motto: vogliamoci bene. Magari in nome di un pacifismo che poi trova tra i suoi templari gente che va a lanciare pietre in piazza contro la polizia. Meglio valutare volta per volta i motivi per i quali sia - e casomai quando - il caso di fare davvero una guerra. Tenendo presente Guernica, il suo messaggio: la sofferenza e la speranza. Il realismo e l’idealismo.

In Jugoslavia, per conto mio, l’opzione guerra (con Raymond Aron: extrema ratio) era prematura. Essenzialmente perché non è stato chiarito l’obiettivo di base. Milosevic va fermato. D’accordo. È un dittatore, un macellaio, un boia. Ma proprio questi aggettivi, quotidianamente utilizzati fino a qualche tempo fa da tutti i leader occidentali, rendono poco credibile che la Nato si accontenti - al termine di questa operazione bellica - di fargli firmare il testo di Rambouillet. Sarebbe illogico: dopo la pulizia etnica serba, la guerriglia dell’Uck e i bombardamenti Nato, in Kosovo la convivenza è impensabile. E, se prima gli albanesi avevano timidamente sottoscritto quegli accordi (pur con un lungo allegato interpretativo), oggi probabilmente aspirano a qualcosa di più: l’indipendenza vera e propria che - almeno nominalmente - il documento Rambouillet non concede. D’altra parte, se (quando) la Nato costringerà Milosevic alla resa e garantirà agli albanesi l’indipendenza del Kosovo (o di una parte di esso) lo scenario che si aprirà non pare essere dei più fulgidi. Si potrebbe innescare un meccanismo tale per cui qualsiasi minoranza linguistica o etnica o nazione che rivendicasse di avere il pieno governo su un territorio potrebbe - legittimamente - chiedere che la Nato (l’Onu, formato da praticamente tutti i paesi del mondo, vegeta impantanato nello stagno degli interessi contrapposti) si faccia garante del principio: alla lunga, lo stato omogeneo. Con conseguenze a catena che è meglio non pensare nemmeno visto che - sottolineava qualche tempo fa Joan Galtung - al mondo ci sono 225 stati e 2000 nazioni. Così, in Jugoslavia, il rischio è quello di un intervento devastante che come risultato ha solo quello di aumentare la sofferenza e non soddisfare le speranze. Proprio perché nessuno sa esattamente cosa sperare. Non sa quale sia il referente terreno del lume di Guernica. E senza quella luce: la donna non si alza, il fiore non sboccia. Resta solo il dolore.

È vero: il conte di Leinsdorf era convinto che un uomo che fa qualcosa di grande non sa quasi mai il perché lo stia facendo: «Un uomo non va mai più lontano che quando non sa dove sta andando», diceva. Era l’amico di Ulrich, l’uomo che la penna di Musil ha inchiodato all’inazione per il suo possibilismo perpetuo. Un uomo senza qualità, appunto. Ma dove sta la qualità nell’uccidere persone, spezzare storie, distruggere tutto in nome di un obiettivo sfocato, che non offre speranza di pace duratura?


(L'Adige e il Mattino, 9 maggio 1999. Prima pagina)

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