"Stella Maris" e il suo prequel "Il passeggero" costituiscono un dittico indissolubile e. per temi trattati, stile, universo simbolico, possono essere considerati a tutti gli effetti l'eredità letteraria di Cormac Mc Carthy.
Ecco l'affresco di un aficionado.
1. L'ultimo libro di Mc Carthy
Stella Maris è una casa di cura aconfessionale per pazienti psichiatrici a Black River Falls, Wisconsin. Il 21 ottobre 1972 vi si presenta una bella ragazza di vent’anni sofferente di allucinazioni e con tendenze suicide. Si chiama Alicia Western. Chi legge “Stella Maris” – l’ultimo libro scritto da Cormac Mc Carthy – dopo il suo prequel “Il passeggero”, sa già che Alicia, alla fine, è riuscita nel suo mai celato intento: lasciare questo mondo. “Il Passeggero”, infatti, sebbene pubblicato prima, inizia il suo svolgimento a partire dal novembre 1981.
Tra le pagine di “Stella Maris” – dialogo tra Alicia e il suo psichiatra – si scopre molto di quanto ne “Il passeggero” era stato solamente accennato. Oltre all’ossessione di Alicia per la morte, se ne approfondisce la genialità matematica, la sua innata attitudine per il violino e per la musica, la sua sterminata conoscenza filosofica e, soprattutto, si chiariscono i contorni dell’amore incestuoso che la lega indissolubilmente al fratello Bobby. Fratello che lei crede morto in un incidente automobilistico mentre invece se l’è cavata con «una placca di metallo in testa» e «una stecca di metallo nella gamba» e, nove anni dopo, sarà il protagonista de “Il passeggero”.
L’altra tragica ironia che affiora da “Stella Maris” è che Alicia, quando pianificava il suo suicidio, aveva escluso l’ipotesi di annegarsi nelle gelide acque del lago Tahoe perché aveva vagliato la cosa dal punto di vista fisiologico, ritenendo insopportabile il freddo che avrebbe patito. Eppure, sappiamo da “Il passeggero”, si impiccherà sotto la neve.
“Stella Maris” è talmente saldato a “Il passeggero” da poterne, a tutta prima, sembrare un’appendice: quasi lo studio del personaggio Alicia, se non fosse per l’esattezza di una scrittura inconfondibile, e la forma di dialogo conoscitivo, marchio di fabbrica delle opere filosofiche (da Platone a Feyerabend) e della letteratura di Mc Carthy.
A ben guardare, questi suoi ultimi due libri costituiscono a tutti gli effetti il testamento letterario dell’autore: vi sono riprese le pietre miliari che Mc Carthy ha affrontato nei suoi romanzi. E pure il suo universo simbolico.
2. Temi e simboli della carriera
Nei suoi due ultimi romanzi, Cormac McCarthy rievoca tutto il suo universo simbolico. “Il passeggero” inizia con il ritrovamento del cadavere di Alicia impiccata e con il recupero di un relitto dal Mississippi con dentro nove cadaveri. “Suttree” (1979) inizia con il ritrovamento di un tizio che si è suicidato buttandosi nel fiume Tennessee e viene recuperato con un arpione. La fuga dal mondo del personaggio Borman che ne “Il Passeggero” ha lasciato la famiglia e vive da barbone in un camper scassato in riva al fiume rievoca ancora quella di Suttree che abbandona la moglie, il figlio e l’agiata vita cittadina per andare a stabilirsi in una casa galleggiante sul fiume. In “Stella Maris”, il violino di Alicia - un «Amati abbastanza straordinario» pagato con l’eredità della nonna paterna non può non rievocare quello che risuona nell’ultima danza delirante di “Meridiano di sangue” (1985): la stessa Alicia sostiene che «se l’intero universo svanisse l’unica cosa che rimarrebbe sarebbe la musica».
Nell’ultimo dittico di Mc Carthy ritroviamo anche la forza dell’amore ambiguo, con una propulsione niente affatto univoca e figlia di un qualche senso di colpa. Quello che prova Alicia è un amore tossico, caduco e innaturale. Da quando ha quattordici anni è innamorata perdutamente del fratello Bobby solo che quell’amore non può sbocciare, imprigionato dalle consuetudini. «Dimettiti dalla fratellanza» suggerisce Alicia a Bobby, quasi a voler aggirare l’ostacolo. Lui però non ha il coraggio di prendere atto di ciò che lei invece aveva chiarissimo: «Non avevamo altri orizzonti. Sapevo che saremmo dovuti scappare ma non me ne importava niente», «in fondo il fatto che non fosse accettabile non era un nostro problema. Sapevo che lui mi amava. Era solo spaventato».
Dilemma maledetto, quello dell’incesto, che Mc Carthy aveva affrontato già ne “Il buio fuori” (1968) dove però Rinthy e Holme - i due miseri fratelli erranti - fanno venire alla luce il bimbo e Holme lo abbandona nel bosco mentre «urlava la sua maledizione al mondo tenebroso e maleodorante in cui era nato». Da quella colpa originano anche alcune visioni spettrali, che in qualche modo rievocano, ancora, quelle di Alicia e il suo mostro pinnato chiamato Talidomide Kid.
3. Estremo, beffardo, monito
Il contatto umano che Alicia chiede al suo psichiatra nell’ultima pagina di “Stella Maris” richiama l’abbraccio finale del ragazzino protagonista di “La strada” (2006). E queste manifestazioni di tenerezza sono forse l’unica concessione alla speranza della produzione di Mc Carthy, in un mondo che l’autore evidentemente non ha amato troppo. «Se il mondo ha una mente allora è anche peggio di quello che pensavamo», dice Alicia facendo il contrappunto a “Città della pianura” (1998): il libro mastro del mondo «dev’essere irraggiungibile a ogni possibile descrizione». A sentenziarlo è un senzatetto abbastanza svitato mentre Alicia è una psicotica resa schiava dalla sua intelligenza mostruosa. È anche lei, come gran parte dei personaggi di McCarthy, ossessionata dall’estremo margine del confine visibile: un «universo che non contiene né luce né oscurità, né certezza né pace, né rimedio al dolore. Una specie di «piana che si oscura». Ma se quella piana oscura nel suo romanzo “Il buio fuori” era «una distesa spettrale nella quale spiccavano solo gli alberi nudi, contorti in pose di sofferenza e vagamente umanoidi, come figure in un paesaggio infernale» tanto da instillare l’interrogativo sul «perché una strada dovesse arrivare in un posto del genere» e in “Meridiano di sangue” era una pianura temporaneamente illuminata da un umano fuoco fatuo «dove ci sono quelli che vagano in cerca di ossa» e «si spostano vacillando nella luce come meccanismi a orologeria», in “Stella Maris” c’è almeno il calore del contatto umano che aiuta ad aspettare «la fine di qualcosa». Proprio come l’abbraccio che salva il ragazzino – ormai orfano – dall’apocalisse ne “La strada”.
Forse, non conoscessimo già la sorte di Alicia da “Il passeggero”, grazie a quelle mani che - supponiamo - si congiungeranno a quelle del suo psichiatra, noi lettori avremmo potuto sperare nella salvezza della ragazza. Forse però, così, Mc Carthy non sarebbe più stato McCarthy. O forse è il suo ultimo, beffardo, monito: la conoscenza non ci rende felici.
Cormac Mc Carthy, “Stella Maris”, Einaudi, 2023.
Uscito in tre parti su L'Adige (il 23/10/2023, il 30/10/2023 e il 6/11/2023)
Maurilio Barozzi
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