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Pamplona, dove il toro è padrone (19/7/1998)

Aggiornamento: 16 ago 2023


PAMPLONA (Spagna) – Abiti bianchi a perdita d’occhio. Idea di purezza. Che il sei luglio di ogni anno, a mezzogiorno in punto, viene violata. E attorno al bianco cola il rosso. Il colore del sangue. Il colore della muleta con la quale el matador incanta il toro. Il colore del vino.

Se non hai mai letto “Fiesta” di Hemingway, la sagra di San Firmino non ti dirà nulla. Se, oltre a non aver letto “Fiesta”, ti sei perso i tiggì che a metà luglio di ogni anno documentano una forsennata e folle corsa–sfida tra uomini ubriachi e tori inferociti per le strade cittadine, anche il nome Pamplona ti risulterà estraneo. È nota quasi solo per questo (e, da qualche anno, per essere la città natia del famoso ciclista Miguel Indurain). E’ probabile che non riesci neanche a rintracciarla sulla cartina geografica: è una città della Spagna. Anzi: della Navarra, Paesi Baschi. Infatti non è grande, Pamplona: centottantamila abitanti operosi e seri, fieri della propria origine basca. Ma che raddoppiano – o, meglio, triplicano – durante la seconda settimana di luglio.


Per capire cosa sia la Fiesta di San Firmino, prova ad immaginare duecentomila persone che vengono da tutto il mondo, vestite di bianco con un foulard rosso annodato al collo e una fusciacca rossa alla vita, che a mezzogiorno del sei di luglio stappano contemporaneamente una bottiglia di champagne venduto a buon mercato per l’occasione del chupinazo, l’inizio della Fiesta. E poi il vino navarro – rojo – che scorre a ettolitri. Il bianco degli abiti non è più bianco. Il rosso prende il sopravvento e va a fare da richiamo alla cornice di gerani che addobbano tutte – ma proprio tutte – le finestre di Pamplona.


E’ l’incipit di nove giorni (sempre fino al 14 luglio) di allegria, di sbronze, di sangue, di paura. Di emozioni forti. Forti come l’odore dell’alcool irrancidito dal rimanere sul suolo lordo in balia del sole e che dopo qualche giorno non riesci proprio più a sopportare. Forti come il toro, leit motiv – assieme al vino e agli stranieri – della Fiesta. Un toro che da figura mitica diviene oggetto di scherno e parametro di sfide impavide che ogni mattina i più temerari disputano con le fiere lungo le vie Santo Domingo, Mercaderes e Estafeta, fino alla Plaza de Toros. Poco meno di un chilometro: percorso all’impazzata.


La corsa mista tori–uomini ha origini lontane. Si chiama encierro, che letteralmente sta a significare proprio il rinchiudere i tori nell’arena. Alle otto precise, annunciati da una fragorosa esplosione, sei tori inferociti (più cinque o sei manzi addestrati per accompagnarli nel percorso) vengono liberati dalla propria stalla perché raggiungano l’arena attraverso il centro storico. Con loro quasi un migliaio di folli in cerca di gloria che, non contenti della notte brava trascorsa a bere vino in quantità industriale, vogliono dimostrare a se stessi, agli altri, ai tori, alle donne di essere nello stesso tempo coraggiosi, veloci, furbi. Incitano i tori, li pungolano con oggetti, li istigano con il rosso dei foulard e delle sciarpe. Come dei novelli toreri. E poi via di corsa.

Certo la prodezza non riesce a tutti – sennò dove starebbe la bravura? Qualcuno ci rimette qualche cosa. Che so?, per una cornata rimediata nella prima corsa di quest’anno, uno studente ventenne di Pamplona si è ritrovato all’ospedale con un solco di venticinque centimetri nella coscia, in fin di vita per il sangue perso. E’ solo un esempio. A qualcun altro va anche peggio visto che praticamente ogni anno c’è chi – per una prodezza di troppo – lascia la vita. Ma fa parte del gioco.

Pamplona, Sanfermines 1998, Plaza de toros

San Firmino non è solo l’encierro. Innanzitutto c’è la corrida. Sacra in tutta la Spagna.

«Voi in Italia non lo avete uno spettacolo così», mi ricorda un signore sulla sessantina che, assieme alla moglie ammaliata dalla sicumera dalle sue sentenze, continua a bere vino da un otre di pelle e mangiare bocadillos – panini –, obbligandomi tra l’altro a favorire al suo banchetto improvvisato sulle gradinate dell’arena.

È vero: uno spettacolo così in Italia non c’è. Sei tori, uno alla volta, nell’arco di due ore e mezza sono prima piegati con la vara dei picadores a cavallo, poi istigati da un torero che conficca le banderillas sul dorso, infine sfiniti e infilzati con la spada dal matador, in un testa a testa con l’animale.

Trafitto, il toro sta lì, con il ferro piantato nella groppa fino all’elsa. Rimane immobile. Assieme al sangue che gli cola dalla bocca e dalle ferite inflittegli con la vara, le banderillas e la spada, perde le forze e la vita.


(Foto da: Wix)


Quando cade la gente applaude. S’infervora. Grida. Beve. Mangia. Lancia nell’arena i cuscinetti come fossero coriandoli (se non ha apprezzato il lavoro del matador). E invece sarebbe meglio tenerli, per attutire gli effetti malefici prodotti dal tenere il sedere sul duro delle gradinate per ore. Magari sulla pietra calda, arroventata dal sole spagnolo.

El matador saluta. Se il toro muore in fretta significa (se non ci sono stati trucchi) che il colpo con la spada è stato preciso ed efficace. E’ un segno di bravura che può essere premiato, oltreché con i battimani, anche con lo sventolio di fazzoletti bianchi del pubblico: in questo caso la giuria è chiamata ad assegnare al torero le orecchie o la coda del toro. Un riconoscimento tanto barbaro quanto prezioso per chi intraprende questa carriera.


Diario de Navarra, 7/7/1998

Oltre alla corrida e al vino c’è – strano ma vero, in un’orgia alcolica che s’inebria con l’odore del sangue – il momento religioso. Anche se, per la verità, rimane molto sullo sfondo. Non si può tuttavia scordare che San Firmino è il patrono della città di Pamplona. Per questo il sei luglio si celebra una messa solenne nella chiesa di San Lorenzo.

Tutto intorno la Fiesta. Musica e alcool in ogni buco: per le strade, nelle piazze, nelle osterie. Orchestre e balli tipici, il luna park e le bancarelle, le gare di taglio della legna, gli spettacoli teatrali. E cibo. Paella e bocadillos, soprattutto.



A mezzanotte è il momento delle danze. Iniziano i balli sotto le stelle. Dappertutto, in città. Ce ne sono per tutti i gusti. Ho contato sei discoteche all’aperto, in sei piazze diverse: dalla Plaza Consistorial, dove si balla il rock, a Plaza de la Cruz allietata dall’orchestra, alla Plaza del Castillo dove gli amplificatori irradiano, ad un voltaggio capace di rincoglionire chiunque, musica dance. C’è la musica basca a Plaza de los Fueros e la “salsa” in Plaza de San Francisco. In Plaza San José, poi, è di scena il jazz.

E così, contando anche sui locali aperti tutta la notte, si può bere e tirare mattina, pronti per l’encierro assieme ad altre trecentomila persone che vengono da ogni parte del mondo: americani – sono moltissimi –, neozelandesi, inglesi, tedeschi francesi, sudamericani.

I veri assenti a questa sagra sono gli italiani. Pochi, molto pochi. «Agli italiani in ferie piace andare a donne – giustifica i connazionali con lineare semplicità uno degli scarsi presenti –. E qui, in mezzo a questo bailamme, si fanno pochi salti: per questi obiettivi è molto meglio la Costa del sol». Parola di chi, anche là, giura di esserci stato.

Gli unici che lavorano, nei giorni della follia sanfirminiana, sono i baristi e gli albergatori, per tutti gli altri – fatta solo qualche rara eccezione – è il tempo della Fiesta. Prezzi raddoppiati, sia per le pensioni (l’alta stagione, a Pamplona, dura soltanto nove giorni: dal 6 al 14 luglio) che per le bevande.


Nessuno si tira indietro. Turisti o meno che siano, ricchi o poveri, bambini o vecchi. Sì, perché San Firmino non è solo la festa dei giovani. Ci sono tutti: dal ventenne di belle speranze che si fa altezzoso prevedendo le res gestae che lo consacreranno alla fama durante l’encierro, al settantacinquenne in forze, al neonato, ancora in carrozzina ma già vestito di bianco, con un piccolo foulard rosso al collo. Forse a mezzanotte sarebbe un po’ tardi per lui. Ma nella patria delle corride non vale la pena di andare troppo per il sottile. Una volta all’anno, a Pamplona, tutto è concesso.




Maurilio Barozzi

L'Adige e Il Mattino 19 luglio 1998





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