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Maracanã. Sull'onda crespa del Brasile

Un giornalista fallito va in Brasile al Mondiale di calcio del 2014 in cerca di gloria e riscatto professionale. Invece ritroverà se stesso comprendendo come si sia affannato per ottenere il successo mentre a renderlo davvero felice sia la strada da percorrere per raggiungerlo.

 

Maurilio Barozzi

"Maracanã. Sull'onda crespa del Brasile"

ISBN 9791280916259

Pp. 254, euro 12 (ebook euro 4,99)

Sui media

IL LIBRO

Dopo aver avuto un baretto sulla spiaggia di Salvador de Bahia dal 2004 al 2011, nel 2014 sono tornato in Brasile come cronista per seguire il mondiale di calcio: 40 giorni sull’ottovolante. Appena arrivato, a inizio giugno, ho trovato un Brasile effervescente, speranzoso e garrulo. Negli ultimi anni, le politiche sociali di Lula e Dilma avevano un po’ alleviato le condizioni di miseria e lo sfruttamento delle risorse naturali (gas e petrolio in primis) aveva messo le ali all’economia. In  tutto il mondo si considerava il Brasile come un modello di sviluppo. Tanto che, con grande abilità diplomatica, per pubblicizzare i propri risultati il Paese riuscì ad ottenere l’incarico di organizzare il Campionato del mondo di calcio 2014. Era il mondiale di calcio nel Paese del calcio.

Al termine di quei pazzeschi 40 giorni però, lasciai un Brasile che sembrava depresso: la speranza di conquistare il sesto titolo mondiale si era schiantata sull’1-7 subìto dalla Germania in semifinale e tale delusione portò alla luce svariate magagne che fino allora erano state camuffate. Al risveglio da quella batosta, il Brasile non era più il Gigante sudamericano, ma un grande Paese ricolmo di limiti.

Così, tornato in Italia, cercai di trovare un registro per raccontare quella debacle sportiva e politica (il crollo di un castello probabilmente di sabbia) che tuttavia non cancellava la bellezza e la simpatia di milioni di brasiliani, le loro attese, la loro tenacia, la loro generosità.

Ne è nato questo romanzo - MARACANÃ - che racconta i mille volti del Brasile a partire dal suo aspetto più riconoscibile: il calcio. Un romanzo che parla comunque la lingua vivida della speranza attraverso i tre protagonisti: un giornalista italiano e i suoi due amici brasiliani, un ex calciatore e una stilista di successo.

Sono certo che MARACANÃ potrà piacerti. Ti farà evadere e ti trascinerà alla scoperta di un meraviglioso País tropical. Nello stesso tempo, ognuno potrà immedesimarsi nella storia di una rivincita professionale: a chi non è capitato qualche volta di sentirsi incompreso sul lavoro e di cercare una clamorosa gratificazione a titolo di riscatto?  

M.B.

__________

Accetteresti un incarico dall’azienda che due anni prima ti ha rovinato la reputazione costringendoti alle dimissioni?
Eddi Angeli non se la passa bene. A 37 anni è solamente un ex: ex calciatore, ex marito e, di fatto, ex cronista sportivo. S’intrufola ai buffet dei vernissage, ruba i fiori a un ambulante e per di più non si sente più un giornalista: il massimo a cui aspira è la collaborazione con qualche ufficio stampa.

Quando però il suo vecchio giornale gli propone un viaggio per seguire come inviato il mondiale di calcio, in Eddi torna ad accendersi la scintilla dell’ambizione. Così, nel giugno del 2014, parte per il País do futebol, un Brasile che sobbolle, smanioso di vincere il sesto titolo e decollare come potenza economica.
Purtroppo, i contorni della missione si rivelano ben presto opachi e costringono Eddi a destreggiarsi tra stanze pulciose, scaltri tassisti, reporter saccenti. Ma soprattutto a fronteggiare Max, il vecchio collega che lo aveva messo fuori dal giornale. Al suo fianco, Eddi ha solo Sergio, un ex compagno di squadra brasiliano, e Darlene, una stilista lesbica. E dentro di lui macera la domanda di fondo che è quella di ognuno di noi: cosa sono disposto a fare per il successo?

COME INIZIA IL ROMANZO

Appena suonai il campanello, lo sentii abbaiare. Sorrisi: Byron mi aveva già riconosciuto. Gemma aprì la porta e il cane balzò giù dalle scale per arrampicarmisi al petto.

«Ehi, non si salta su così!» dissi. Poi guardai Gemma. «Grazie, mi hai fatto davvero un favore.»

«Entra a prendere un drink, così Byron si calma.»

Mentre mi sedevo, il cane sparì dietro la porta.

Non riconoscevo più quell'appartamento. In mezzo alla cucina, una tavola in legno grezzo faceva da elegante contrasto alla linea minimal degli accessori ravvivati da orchidee blu: la mano da wedding planner di Gemma. Pensai che avevo fatto bene a lasciarlo a lei, per me sarebbe stato sprecato. E nemmeno avrei potuto permettermi l'affitto.

Byron tornò lasciandomi tra i piedi una pallina da tennis. Gliela feci scivolare lungo il pavimento di legno. In un balzo la riaddentò e la riportò salendomi in grembo con le zampe davanti. Aveva il fiatone e scodinzolava.

«Chi taglia la coda ai dobermann andrebbe giustiziato» disse Gemma mentre portava due gin tonic.

«Anche le orecchie» dissi sollevandogliele come ali di un aeroplano.

Ridemmo.

Alla parete, la foto in cui posavo con la maglia della Spal era stata rimpiazzata. Ora ce n'era una di lei a cavalcioni di un elefante. La indicai. 

«Non mi avevi detto di essere andata in India.»

«Si vede che ti interessi molto alla mia vita.»

«Non voglio passare per ficcanaso.»

«Esistono giornalisti che non lo sono?»

Sollevai le spalle.

[...]

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LO STORICO GERMANIA BRASILE 7-1 

8 luglio 2014

 [...] Poche ore prima della semifinale Germania-Brasile, trovare un bar aperto era impossibile e così rimasi a casa di Sergio armeggiando sul telecomando della tv. Un notiziario disse che Dilma aveva inviato via twitter un messaggio alla squadra per esortare i ragazzi a combattere. La Presidente usò le parole della canzone 'E vamos à luta' di Gonzaguinha: «Ho fiducia nella gioventù che procede in prima linea tenendo la lancia/Ho fede nei giovani che non fuggono le fiere e affrontano il leone. Forza Brasile.»

Gonzaguinha era un cantante magro e barbuto che somigliava molto a Socrates, sia per l'aspetto fisico, sia per la filosofia di vita anarchica. E lei, Dilma, scelse proprio quell'artista per tornare a riscaldare il suo rapporto con la squadra di calcio del Paese. Solo che il messaggio, che nei toni riportava a galla il passato barricadiero della Presidente, diede la stura al rinfocolare delle polemiche sul mondiale. Insabbiate dai media e represse dalla polizia, le proteste avevano comunque covato sotto la cenere per tutti quei giorni. Il notiziario aggiunse che in molti risposero al tweet presidenziale: alcuni con insulti; altri dissero che, se Dilma la pensava così, avrebbe dovuto apprezzare i black block e i contestatori in avanguardia anziché farli pestare dalla polizia; altri ancora lodarono Romario, sempre polemico contro l'organizzazione della Coppa che aveva definito «il più grande latrocinio della storia del Brasile.»

Con tutte quelle provviste, la partita avrebbe potuto durare pomeriggio, notte e pure altri due giorni. Mônica aveva preparato una feijoada insaporita da decine di salsicce. C'erano anche carne di porco, riso, insalata e pomodori, verdura cotta, salsa piccante da aggiungere a volontà e una teglia di maccheroni. Sergio si era dedicato al beveraggio: decine di lattine di birra, una bottiglia di vino rosso, una di Domecq, una di Bacardi e una di coca cola. Pensavo che dovessero venire altre venti persone, invece era tutto per noi tre.

Mônica appoggiò sul tavolino un vassoio di popcorn, formaggio e affettati. Sergio stava preparando tre bicchieri di rum e cola mentre alla tv andava l'inno nazionale. I giocatori brasiliani esibivano la maglietta dell'infortunato Neymar mostrando alle telecamere il suo numero dieci. David Luiz indossava la fascia da capitano ereditata da Thiago 'Chorão'. Aveva la faccia cianotica di chi era teso allo spasimo.

«Neanche fosse morto» disse Sergio. Non capii se si riferiva a Neymar o al volto livido di David Luiz, ma non era importante. Da fuori provennero delle grida isolate a squarciare il silenzio della cittadina.

«Sentito?» dissi. «Qualcuno ha già cominciato a far festa.»

«Ufff, porta male» disse Mônica.

Sergio ridacchiò.

Uscii sul balcone. Scuriva presto e sulle strade senza illuminazione non c'era un cane. Si vedevano soltanto le luci alle finestre delle case e il meccanico del quartiere che aveva sistemato una piccola televisione al bordo della carreggiata, appena fuori dalla sua autorimessa. Orientò le antenne e si sedette per terra, di fronte allo schermo. Il bagliore della tv faceva distinguere solo la sua maglietta gialla e la lattina di birra che teneva in mano. Nient'altro.

Tornai dentro.

Il Mineirão di Belo Horizonte era il muggito di una mareggiata gialla. Tutti, dal Serengeti a Sidney, da New York a Canicattì, sapevano che la Canarinha ormai era a due soli passi dal sesto titolo mondiale. Anche i più scettici misero da parte ogni perplessità e addirittura alcuni supporter tedeschi si erano schierati con la Seleção: i giornalisti ne avevano scovati diversi che entravano allo stadio indossando la maglietta verde-oro. In campo, la Mannschaft si era presentata con una tenuta diversa dal solito, a grosse strisce orizzontali rosse e nere. I giocatori avevano l'aria rilassata e fiduciosa e davano l'idea di essere a loro agio dal momento che non avevano molto da perdere: in semifinale c'erano arrivati e nessuna squadra europea aveva mai vinto un mondiale in America.

Al fischio d'inizio dalla strada arrivò un urlo. «Nazisti, vi faremo a pezzetti!»

«Il meccanico» ridacchiò Sergio. Poi calò il silenzio. In tutto il sertão parlava solo la semifinale della Copa das Copas. Anche Sergio ammutolì e Mônica si sedette sul divano.

Dopo poche azioni di studio, all'undicesimo minuto, su corner da destra, Kroos fece spiovere il pallone nel cuore dell'area brasiliana. David Luiz sbagliò la posizione dimenticandosi la marcatura di Müller. Grato, e forse incredulo di essere lì da solo, il centravanti bavarese toccò di piatto e spedì la palla in gol. […]

Dalla strada non giunse un fiato.

Sergio rimase impietrito col suo rum cola in mano e solo Mônica si lasciò scappare un'imprecazione: «Danação!»

Le cose prendevano una brutta piega ma il Brasile anche nella prima partita era andato in svantaggio e poi recuperò. Solo che l'artefice di quella rimonta era stato Neymar, il grande assente. E, quel che è peggio, la retroguardia canarina pareva imbambolata. Il telecronista se la prese con David Luiz. «Incredibile!» ripeteva come una litania. «Lasciare solo in area un attaccante che in questa Coppa ha già segnato fior di gol… Incredibile!»

La giaculatoria del commentatore non era ancora terminata che, al minuto 23, nella difesa di Felipão si aprì la seconda breccia. Una palla rasoterra filtrò di nuovo nell'area brasiliana. Stavolta fu Marcelo a lasciare troppo spazio e Müller toccò indietro per l'accorrente Klose. Julio Cesar si oppose alla disperata ma la sua respinta tornò proprio sui piedi di Klose. Con comodo, il numero undici tedesco ebbe la possibilità di riprovare il tiro da pochi passi, smarcato e col portiere a terra. Non serviva essere il bomber dei mondiali per fare centro.

Da lì iniziò il calvario. Su un Brasile inerme, incapace di reagire alle difficoltà, i tedeschi infierirono a raffica. Kroos spedì in gol un sinistro e cinque minuti dopo appoggiò a porta vuota dopo un triangolo con Khedira; dunque fu lo stesso Khedira a finalizzare l'uno-due con Özil.

Alle 17.30 di martedì otto luglio 2014, lo stadio Mineirão di Belo Horizonte aveva incorniciato la debacle. Un pomeriggio catastrofico, il peggiore che la Seleção brasileira abbia mai vissuto. E l'orizzonte di conquistare il sesto titolo completamente abbuiato. «Perché?» belava il telecronista. «Perché, mi chiedo, dopo ventinove minuti perdiamo 5-0?»

[…]

Ormai non era più da considerare dogma il refrain secondo cui il Brasile è o País do futebol. Il folle pomeriggio disegnava il capolettera della nuova era calcistica. Coi tedeschi lanciati a fare gli apripista.

In realtà, quei crudeli minuti non potevano essere considerati una tragedia brasiliana. Erano piuttosto il risveglio da un sogno già dissolto giorni prima, nelle battute finali di Brasile-Colombia, con l'infortunio di Neymar, unico vero punto di riferimento. Senza condottiero, la Seleção era smarrita e la Germania precipitò la più glorificata squadra del mondo in una dimensione quasi umoristica. Non c'era commozione, non ci poteva essere: la Canarinha reagiva agli affondi tedeschi come un'accozzaglia di improvvisati, non come la più forte Nazionale della storia. Che pathos può infondere una partita che dopo mezz'ora è già 5-0?

[…]

Più tardi, nel secondo tempo, sono arrivati altri due gol tedeschi da parte di André Schürrle e, all'ultimo minuto, Oscar ha segnato il punto della bandiera. Sembra impossibile, eppure è andata così: Brasile-Germania 1-7.

«Um fracasso», una rovina, chiosò il telecronista.

[…]

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