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Seme di metallo

Alla fine della Prima guerra mondiale, un borgo agricolo di confine è scosso dall'arrivo di uno strano forestiero e si sente minacciato dalla nascita della Fabbrica, la Montecatini.

Con l'incedere del thriller, il romanzo racconta la storia della nascita della più grande fabbrica di alluminio italiana e del folle Isidoro che la preannunciò. Dice anche della lotta tra i contadini e gli operai.

Pubblicato per la prima volta nel 2006, e salutato dalla critica con recensioni molto positive, viene riproposto nel restyling dei tipi Borderfiction.

 

Maurilio Barozzi

"Seme di metallo"

Curcu e Genovese 2006, Borderfiction Edizioni 2019

PP. 210, euro 7,50 (ebook euro 3,00)

Sui media

IL LIBRO

Pubblicato per la prima volta nel 2006, e salutato dalla critica con recensioni molto positive ('Un noir alla Lynch" titolava ad esempio il quotidiano Arena di Verona), Seme di metallo è stato riproposto da Borderfiction Edizioni in occasione del trentennale della chiusura dello stabilimento Montecatini (1983-2013).
Vi si narrano le vicende del vagabondo Isidoro Cavada che nel 1918 arriva in Trentino, a Mori, un borgo agricolo situato tra il bosco e le acque del fiume Adige. Gli abitanti vivono esistenze dure, scandite dai ritmi del lavoro nei campi, della cura del grano, del tabacco, dei bachi da seta, della messa, delle discussioni alla taverna e l’arrivo di questo forestiero li inquieta: sconosciuto, non frequenta la chiesa, non lavora, non aiuta nessuno. Compare e scompare quasi fosse un’ombra, un fantasma. Non parla, salvo quando predice una maledizione che i paesani non comprendono. Per tutti è un ladruncolo svitato da cui star alla larga.
Ma nel 1927, quando allo stagno viene trovato il cadavere stuprato di una ragazza del luogo, gli abitanti del paese sanno con esattezza ciò che devono fare. Inizia così una caccia all’uomo, una specie di missione biblica, il cui epilogo farà emergere il lato violento, meschino e carico di squallidi segreti di quel mondo così distante dalla contemporanea realtà cittadina.
A intreccio, raccontate per flash di memoria, la nascita, la vita e la morte della fabbrica, la maledizione che Isidoro aveva preannunciato.

COME INIZIA IL ROMANZO

Settembre 1925

 

Lì, un giorno, si presentarono in tre. O magari non erano neanche tre, ma chi vide – o sostenne di aver visto – disse: tre. Avevano le camicie con i colletti puliti e inamidati, le cravatte e le giacche eleganti e abbotto­nate. Cittadini. Forse di Trento, Verona. O magari Milano. Osservavano la distesa di viti e tabacco lungo il fiume. Additarono un punto non ben definito: mari­nai che tracciano la rotta in mezzo ad un mare che non è loro, ma che sentono loro; che cercano una terra d’at­tracco che non è loro, ma che credono loro; che scrutano un orizzonte che non sempre è roseo, ma che per il fatto stesso di essere orizzonte – futuro! – s’illudono roseo.

Chi vide quei tre, o disse di averli visti, raccontò in paese che avevano indicato la Gorga. La Gorga o lì in­torno: la fertile lingua di terreno alluvionale un paio di chilometri a sud ovest di Mori. Chiuso a est dalle irte piagge del Baldo, il territorio giaceva a cavalcioni del fiume Adige e si abbeverava alle sue acque.

Nessuno però aveva udito ciò che i tre cittadini si dissero.

 

 

Dicembre 1918

 

Quando arrivò a Mori, nel dicembre 1918, era magro, pallido e non dove­va avere più di 25 anni. Chi lo vide ricordava solo gli abiti logori, la rada barba sfatta e gli oc­chi piccoli e torvi che facevano pesare a una faina. Anche il suo modo di muoversi, furtivo e a scatti, ricordava una faina. O un ratto.

Dissero che sbucò una mattina d’inverno dalla strada che sale da est, dal fiume Adige con un fagotto sulle spalle. Non aveva altro. Mostrò un foglio a due soldati.

Uno di quelli lo guardò. «Come ti chiami?».

«Isidoro».

«Isidoro, e poi?».

«Cavada. Isidoro Cavada».

«Da dove vieni?»

Isidoro alzò il braccio verso la vallata percor­sa dal fiume Adige che si spingeva verso il Ve­neto. Ma non disse niente.

Il soldato era abituato ai reduci dalla Grande guerra, poveracci resi mentecatti senza memo­ria dalle bombe e dagli stenti che giungevano in quel borgo di frontiera da chissà dove. Così tornò a guardare il foglio: «È in regola» disse al collega.

L’altro annuì e indicò una delle baracche co­struite per gli abitanti del paese, visto che quasi tutte le case erano state distrutte dai bombarda­menti. Gli acconsentì di prendersi una delle balle di paglia che erano arrivate lì dal Comitato profughi di guerra e disse: «Vai lag­giù. In quella c’è posto anche per te».

Quando il ragazzo si presentò sulla porta, uno dei paesani che la occupavano, senza nem­meno prendersi la briga di rialzarsi dal suo pa­gliericcio, gli disse: «E tu che vuoi?».

«Un posto per dormire».

«Non lo vedi che siamo già stretti?» disse l’al­tro. Anche quello era molto magro ed emacia­to. Portava i baffi e un cappello di feltro a co­prire il capo calvo.

«Sì lo vedo».

«E allora?».

«I soldati mi hanno detto di venire qui».

«I soldati dormono in caserma, non qui. Non sanno che non c'è posto. Vai a cercarti un altro posto» disse l'uomo.

«I soldati hanno detto di venire qui».

«I soldati un cazzo!» disse il tizio sollevandosi dal suo misero giaciglio. Ma fu interrotto dal­l'ingresso di un uomo in divisa.

«Qualcosa che non va, Saigola?», gli disse il soldato.

«No è… È che… Lo vede anche lei che sia­mo stretti… Non…».

«Vi stringerete di più. Sarà più caldo» sogghi­gnò il soldato e ordinò a Isidoro di entrare nel­la baracca.

In silenzio, senza espressione, il giovanotto cercò un angolo dove stendere la paglia. Il più lontano possibile da tutti. Spostò con la punta dello scarpone i resti del pagliericcio che fino a qualche giorno prima dovevano essere stati il ricovero di qualcun altro, e alcuni fili gli rima­sero impigliati tra la suola e la tomaia, staccate e aperte come la bocca sdentata di un pesce gatto. Isidoro non se ne curò e sparse la sua paglia sul posto che magari era stato di un morto. [...]

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