TRENTO - Ci sono facce che raccontano una vita. Occhi blu e neri che dicono di una fede interista. Un sorriso che parla di simpatia e spontaneità. Baffetti alla Zorro che insinuano l’idea di furbizia e abilità a cavalcioni. Basettoni non convenzionali, simbolo di originalità e forse anche di voglia di solitudine e avventura.
C’è tutto Cesare Benedetti, nella sua faccia. Amava il calcio, giocava anche benino, poi a undici anni lo hanno messo su una bicicletta, a Pomarolo, e lui è schizzato via e non l’hanno più visto. Salvo ritrovarselo davanti alla televisione, lo scorso anno, al Giro d’Italia. Undici maggio, tappa Urbino-Porto S. Elpidio, lui, baffi da Zorro a cavallo della sua bici. Astuto, ha subodorato la fuga giusta vi si è buttato a capofitto. Sui saliscendi che tagliano l’Italia centrale ha spinto e si è trovato ad arrivare quinto in una delle più belle tappe di quell’edizione. «È stata forse la più bella soddisfazione della mia vita da ciclista, finora - sorride -. Quella fuga l’avevo messa nel mio mirino appena visto il tracciato della corsa rosa. I miei direttori tecnici mi avevano chiesto di cercare la sortita già nelle primissime tappe, in Danimarca. Ma erano frazioni troppo lineari, era evidente che i velocisti non se le sarebbero lasciate sfuggire. Così mi sono risparmiato e lì, in quella tappa nervosa con oltre tremila metri di dislivello, sono entrato nel gruppetto giusto. Siamo arrivati in fondo. Purtroppo quinto, ma è stata una bella gara, ho tirato fino all’ultimo».
Basettoni da avventuriero solitario e non convenzionale, si diceva. Infatti. In bicicletta è un cacciatore di fughe. «E’ la mia caratteristica tecnica: non sono uno scalatore, né un velocista: mi difendo in questo modo cercando di partire al momento giusto», spiega. In gara, sempre a caccia del momento di andarsene dal gruppo, per star solo. Nella vita un solitario che si allena senza preparatore e senza compagni di squadra. Abita a Mori, senza televisione. Però non da solo. «Mi sono sposato a ottobre con Dorota, anche lei ciclista. Ora ha smesso per dedicarsi al suo lavoro di storica: ha due lauree e ora sta cercando di prendere una borsa di studio per un dottorato di ricerca».
Dorota è polacca. Così, oltre a inglese e tedesco, Cesare parla anche un po’ di polacco. Si sono conosciuti a Livigno durante uno stage ciclistico, entrambi atleti. Sono stati assieme per qualche anno, dunque le nozze. E il basettone dove può essere stato in viaggio di nozze? «Abbiamo fatto dei trekking nei Carpazi, zaino in spalla e dormendo nei rifugi. Poi una settimana in Scozia, a vedere castelli». Capito il tipo?
Restano quegli occhi azzurri che attorno alla pupilla nera fanno i colori dell’Inter. «Sono tifoso nerazzurro, racconta. E in realtà il calcio era lo sport che mi appassionava».
Ecco, torniamo indietro ad allora. Dal calcio al ciclismo. «Abitavo in Val di Gresta e giocavo a calcio nella squadra del mio paese. Ero anche bravino. Poi sono andato a vivere a Riva del Garda e sono andato alla Benacense. Mio papà era appassionato di ciclismo e ogni tanto mi chiedeva se avessi voluto provare ad andare in bicicletta. Ma a me piaceva il calcio».
Fino a dodici anni, nel 1999. Quando alcune circostanze gli hanno fatto cambiare idea. Colpa di Pantani, anche questa! «Ero andato a Madonna di Campiglio per vedere la tappa del Giro d’Italia. Purtroppo non vidi Pantani, che proprio quella mattina fu fermato dall’antidoping, ma rimasi incantato dalla carovana, l’entusiasmo della gente che seguiva la gara, la vitalità che sta attorno al mondo del ciclismo. E quando tornai a casa decisi che avrei provato anch’io a gareggiare».
A luglio la ciclistica di Dro gli fa vedere una bicicletta e già nel fine settimana gli propongono la prima gara, a Pomarolo. «Non avevo mai corso - sorride -. E siccome avevano paura che non sarei stato capace di staccare le mani dal manubrio per bere, non mi montarono sulla bici il portaborracce. Ricordo quella giornata di luglio come una giornata di sete bestiale. Però riuscii a terminare la gara».
E da allora eccolo qui: Dro, Aurora Aquila, Gavardo di Brescia, Bergamasca tra i dilettanti, un ottimo GiroBio e lo stage con la Liquigas, tra i professionisti. Dunque il contratto con la tedesca NetApp, ancora in vigore fino al 2014. «Come obiettivo ho quello di rinnovarlo - sottolinea -. Mi piace il mio lavoro. So che non sarà per sempre, però per intanto tengo duro. Guadagno più o meno come un operaio, però preferisco vivere girando il mondo in bicicletta, piuttosto che lavorare chiuso in una fabbrica». Difatti tra un po’ ripartirà: Maiorca, il Tour dell’Oman, Almeria-Murcia...
Eppure, momenti di difficoltà ce ne sono stati. «Sì, diversi. Nell’ultimo anno da dilettante volevo smettere. Poi ho parlato con i miei compagni di squadra e mi hanno convinto a insistere. Tra i dilettanti si può ancora avere qualche confidente tra i corridori. Nel mondo dei pro invece, specie in questo momento di crisi economica, è mors tua vita mea: tutti a caccia di un contratto».
Quest’anno anche la peggior delusione: aveva già le valigie pronte per la Vuelta de España, quando i suoi direttori della NetApp gli hanno comunicato che sarebbe rimasto a casa. «È stato bruttissimo. Però dopo qualche giorno me la sono messa via. Bisogna pensare al futuro, e cercare di continuare a fare le cose con coscienza. È il mio motto. Penso che uno come me debba lavorare sulla costanza e mantenere sempre un buon livello di forma. È il modo migliore per essere pronto a cogliere ogni occasione. Andare forte dieci giorni e poi sparire tutto il resto dell’anno non mi piacerebbe. Oltre che essere sospetto», butta lì. E viste le polemiche sul doping in cui nuota il ciclismo, male non fa tenersi lontano dal torbido.
Tra un allenamento in salita, un «lungo», una seduta in palestra si diletta con i libri di storia, la sua passione «Mi piacciono le biografie e quando facevo il liceo scientifico adoravo i filosofi greci. Socrate, in particolare». Conosci te stesso, dunque. E la tua terra, aggiungerebbe lui: «La Valle di Gresta è carica di storia e ricordi della Prima Guerra Mondiale. Mi piace ripercorrere i miei posti». Con la bici, poi, quel panoramico su e giù è anche un buon allenamento.
in l'Adige 27 novembre 2013. p. 48
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