Il pubblico del Mondiale di Russia si divide: Neymar è un campione o un attore sempre pronto a simulare? Forse la risposta si ottiene sostituendo quella «o» disgiuntiva con una «e» congiuntiva: Neymar, il numero dieci della Seleção brasiliana, è entrambe le cose campione e attore. E non lo si può capire se non se ne comprende la provenienza.
Non ha avuto una vita difficile, Neymar, che già a 12 anni riceveva uno stipendio dal Santos, e tuttavia in campo rappresenta il frutto maturo dell’evoluzione del calciatore nato sulla strada delle favelas. O sulle spiagge brasiliane che, dopo l’alba, per chilometri e chilometri si trasformano in una sfilza infinita di campi da calcio. Alcuni con le porte fatte di stracci. Altri con pali di legno conficcati nella sabbia. Altri ancora con porte vere e reti ben sistemate. Costeggiando il litorale delle città - da Rio a Bahia -, ogni mattina si possono vedere partite di qualsiasi genere. Molti giocatori non valgono granché ma anche i ragazzini di otto, dieci anni vi si buttano per dimostrare di poter competere coi più grandi. Così, a volte, da quella scommessa salta fuori il campione.
Neymar arriva da lì, da quei campi popolani. Rapido, scattante, scaltro, simulatore e gran genio della finta, è l’incarnazione della quintessenza del calcio brasiliano. Ha l’agilità di un ballerino di samba, la sfrontatezza da monello, la velocità del ladro di polli e una diabolica astuzia malandrina: proprio la summa pallonarum come l’ha cristallizzata il poeta di Recife Gilberto Freyre.
Nel 2013, a ventun anni, Neymar fu eletto per la seconda volta miglior calciatore sudamericano e si apprestava a lasciare il Santos, storico club di Pelé, per accasarsi in Europa al Barcellona di Messi. I catalani gli avevano infiocchettato un contratto da sultano e così, nonostante le lacrime dei tifosi, fece i bagagli e ingrossò le fila dei brasiliani emigranti del calcio. Sempre quell’anno, a giugno, Neymar giocò la Coppa delle Confederazioni con la nazionale canarinha, e strabiliò. Segnò al Giappone. Segnò al Messico. Segnò all’Italia. E in finale segnò anche alla Spagna. Per assonanza con ‘O Rey’, Pelè, i tifosi lo soprannominarono ‘O Ney’. Il suo sguardo pimpante era contagioso, e i suoi profondi occhi scuri evocavano estro e allegria. Ma non solo. Durante il torneo delle Confederazioni, decine di migliaia di manifestanti protestarono contro il rincaro dei prezzi degli autobus e contro le folli spese legate all’organizzazione dei Mondiali. Neymar fece sapere che, se non fosse stato un calciatore chiamato a rappresentare la sua Patria in campo, sarebbe stato anche lui per strada, a fianco dei suoi concittadini. «A lottare per un Brasile più giusto e più onesto» scrisse sui social. E da quel momento è diventato un idolo.
In campo, ‘O Ney’ spesso, si abbandona al virtuosismo. Quelle finte, le mosse e i suoi passi suonano beffardi per l’avversario. Qualcuno si spazientisce e lo picchia, ma lui non retrocede. Arrivato in Europa, al Barcellona, il suo allenatore Gerardo Martino lo invitava a non esagerare con gli artifici da sambista. La risposta è stata: «Sono brasiliano, gioco così».
È strano a dirsi ma ‘O Ney’, anche in quelle azioni a effetto piene di finte e di trucchetti, è onesto. Onesto verso il calcio, che lui vede ancora come spettacolo; onesto col suo pubblico, che da lui si aspetta magie; e onesto con se stesso: pur disciplinato nel gioco di squadra, non ha mai rinnegato la sua origine di calciatore che si diverte in campo. Neymar è così: prendere o lasciare.
(l’Adige, 4 luglio 2018)
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