Appunti da una città costiera
OPORTO (Portogallo) – Ritorno sul Duero. Alla foce si chiama Douro, non è più in Spagna, ma in Portogallo, nel nord: a Porto. Una decina d’anni fa, dalle parti di Soria per scrivere «Spagna». Oggi qui, turista, fagocitato dalle ripide escadas che dal cuore della città portano sul fiume.
Talvolta adombrata da Lisbona, ancorché creditrice per il nome a tutta la nazione (Portus-Cale, porto bello, ai tempi dei romani), Porto è famosa per il vino porto. Un tempo le botti viaggiavano sui “barcos rabelos” ed erano legate assieme per non fuggire assieme alle acque in piena, sempre pronte ad allagare le cantine. Oggi si preferiscono i camion: fiume o strade che sia, il porto va e diviene arcinoto in Sandeman, – “The Don”: sombrero spagnolo e mantello degli universitari portoghesi. Insediate sulla sponda sud – Vila Nova de Gaia –, le cantine non conoscono crisi. Si visitano, si percorrono, si odorano, vi si degustano i prodotti: Porto Apitiv bianco, tinto Tawny e il prestigioso Vintage. Era la mano a tremare, poco dopo, o il ferroso ponte Dom Luis I al passare della metro, mentre scattavo la foto al lungofiume?
Il lungofiume si chiama Marginal. In Brasile, dal 1500 costola dei fasti portoghesi, un marginal è un mezzo delinquente senza dimora, a Porto è il luogo più vivo della città. Turisti che bivaccano nei baretti, venditori di inutilità, ritrattisti, madonnari, noleggiatori di bici e fruitori su due ruote. Un viavai: e pensare che Porto è tutta su-e-giù di scale e rampe lastricate. Invece sul Marginal ciclisti sfrecciano assieme a corridori e salutisti. Raggiungono la foce zigzagando tra le canne che i pescatori adagiano sulla strada e poi via, lungo Foz do Douro – più Ipanema che Portogallo: case rinnovate con vetrate luminose e giardini – fino al Castelo do Queijo dove l’onda sbatte a riva, richiamando masnade di surfisti.
Dal fiume, in centro città si sale percorrendo le escadas, le scale: alte, ripide, vere. Costruite nei tempi in cui servivano e basta, senza pensare alle comodità. Poi mai rifatte. «I gradini sono alti, disagevoli in discesa, peggio ancora in salita» racconta José Saramago in “Viaggio in Portogallo”. E sopra la testa poco cielo: pareti di case, balconcini, panni stesi svolazzanti mischiati a stendardi rossoverdi del Portogallo o azzurri del Porto calcio. È il Cais Ribeira: il quartiere sulla banchina del centro storico e cartolina di questa città che lega nome, destino e storia all’acqua e la terra. «Porto è uno stile di colore – scrive Saramago –, un’armonia fra il granito e i colori della terra che il granito accetta, a eccezione dell’azzurro se con il bianco trova un equilibrio nell’azulejo», trionfante alla stazione di São Bento e alla Capela das Almas.
Il pittoresco, oggi, sono rua Formosa o rua des Flores traboccante negozietti che sembrano usciti da un book anni Venti. Una città di grandi salite, molti gradini, enormi finestre, vivi colori, pochi restauri, svariate cantine – di porto, principalmente – e negozi di vino, bottiglie, trippe e salumi.
A proposito di trippe e salumi. Le guide consigliano di pranzare in rua Mercadores. Locali profondi, stretti, con foto alle pareti, chitarre appese e il fado nell'aere. Il cameriere è affabile ma per il conto la simpatia non conta: stuzzichini d'ingresso che invogliano – ma finiscono infingardamente a carico, que dolor! «Guardi che noi di Oporto non truffiamo nessuno, non facciamo percorsi inutili per spillare soldi ai passeggeri, non siamo mica a Lisbona, sa», assicura nel romanzo di Tabucchi (La testa perduta di Damasceno Monteiro) un tassista a Firmino, convinto invece del contrario. Chi avrà ragione?
E poi chiese a profusione, retaggio dei tempi coloniali e dell'inquisizione portoghese: dos Clerigos, Santo Ildefonso, Carmlitas e do Carmo… Queste ultime separate solo da un vano. A sfavillare però resta São Francisco, sempre lui, oro e luccichio barocco. Risposta lusitana alle omonime brasiliane di Salvador de Bahia e Ouro Preto. Almeno a Porto hanno avuto il buon gusto di sconsacrare l'edificio: troppo sfarzo, sfrontato in fronte alla miseria, per essere anche sacro.
A differenza dei pigri, non temono ladeiras e descidas, salite e discese, gli autobus. Che passano frequenti. Assieme alla metro servono ogni angolo della città e si alternano ai pittoreschi tram su rotaia. Così come non temono la crisi economica i matrimoni. Due celebranti in tre giorni, giù al Cais Ribeira, con foto ricordo su, al ponte di ferro, cugino lillipuziano della Torre Eiffel e tre negozi di abiti nuziali sulla ripida rua de Janeiro. Forse temono invece l'inverno – ora va bene, ottobre mite e senza pioggia – i senzatetto che preparano letti di cartone nell'androne di qualche edificio. Ma – forse per il barbone che anch'io mi porto in faccia – non scassano troppo con richieste di soldi o gorjetas.
Nel cuore della città, il museo d'arte contemporanea Fundação Serralves mantiene le promesse. Nel bene e nel male: chi apprezza il genere sguazza tra minimal art e installazioni video, quadri che aggettiva “concettuali”. Chi invece ama il Rinascimento può dedicarsi con maggior profitto alla palingenesi del porto nel ristorante sul terrazzo o al giardino esterno: rigogliosi alberi a guisa di sombreros che per il botanico e l'amante del silenzio da soli valgono il biglietto. E lì perdersi leggendo Jorge De Sena che canta il suo rabbioso Portogallo «…terra triste/ alla luce del sole calata, imbellettata, vile,/ piena di cortesie per gli stranieri/ che lasciano monete e trasportano pulci, /oh pulci lusitane, per l’Europa» per infine abdicare con i versi di Fernando Pessoa: «… La regalità ho smesso, anima e corpo,/ per ritornare a notte antica e calma,/ come il paesaggio, quando il giorno muore».
E più St Louis che Europa al Tribeca jazz club. Ogni sera si suona nel locale fumoso, atmosfere ormai solo ricordo nell'Unione dei giganti economici...
(ottobre 2012)
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