Maurilio Barozzi - Le Città nei libri/7
PORTO (Portogallo) – Di nuovo sul fiume Duero. Le acque che sgorgano in Spagna, verseggiate da Antonio Machado dalle parti di Soria (“Il Duero scorre, terso e muto, lentamente/ La campagna appare, più che giovane, adolescente”), si tuffano con tutto quanto portano nell’Oceano Atlantico e inseminano, inebriandola, la città di Porto, Portogallo del Nord. Antonio Tabucchi, cantore in Italia dei prodigi lusitani, la fa descrivere così al giovane reporter Firmino nel romanzo “La testa perduta di Damasceno Monteiro”: «Dolce città accarezzata da docili colline e solcata dal placido Douro. Vi navigano fin dai tempi più remoti i caratteristici rabelos carichi di botti di rovere, portando alle cantine della città il prezioso nettare che, elegantemente imbottigliato, prenderà le vie dei più lontani paesi del mondo, contribuendo alla fama imperitura di uno dei più pregiati vini del globo».
Talvolta adombrata da Lisbona, ancorché creditrice per il nome a tutta la nazione (Portus-Cale, porto bello, ai tempi dei romani), Porto è dunque famosa per il vino porto. Un tempo le botti viaggiavano sui “barcos rabelos” ed erano legate assieme per non fuggire assieme alle acque in piena, sempre pronte ad allagare le cantine. Oggi si preferiscono i camion: fiume o strade che sia, il porto va e diviene arcinoto in Sandeman, – “The Don”: sombrero spagnolo e mantello degli universitari portoghesi. Insediate sulla sponda sud – Vila Nova de Gaia –, le cantine non conoscono crisi. Si visitano, si percorrono, si odorano, vi si degustano i prodotti: Porto Apitiv bianco, tinto Tawny e il prestigioso Vintage. Era la mano a tremare, poco dopo, o il ferroso ponte Dom Luis I al passare della metro, mentre scattavo la foto al lungofiume?
Il lungofiume si chiama Marginal. In Brasile, dal 1500 costola dei fasti portoghesi, un marginal è un mezzo delinquente senza dimora, a Porto è il luogo più vivo della città. Turisti che bivaccano nei baretti, venditori di inutilità, ritrattisti, madonnari, noleggiatori di bici e fruitori su due ruote. Un viavai: e pensare che Porto è tutta un su e giù di scale e rampe lastricate. Invece sul Marginal ciclisti sfrecciano assieme a corridori e salutisti. Raggiungono la foce zigzagando tra le canne che i pescatori adagiano sulla strada e poi via, lungo Foz do Douro - più Ipanema che Portogallo: case rinnovate con vetrate luminose e giardini – fino al Castelo do Queijo dove l’onda sbatte a riva, richiamando masnade di surfisti.
Dal fiume, in centro città si sale percorrendo le escadas, le scale: alte, ripide, vere. Costruite nei tempi in cui servivano e basta, senza pensare alle comodità. Poi mai rifatte. «I gradini sono alti, disagevoli in discesa, peggio ancora in salita» racconta José Saramago in “Viaggio in Portogallo”.
E sopra la testa poco cielo: pareti di case, balconcini, panni stesi svolazzanti mischiati a stendardi rossoverdi del Portogallo o azzurri del Porto calcio. È il Cais Ribeira: il quartiere sulla banchina del centro storico e cartolina di questa città che lega nome, destino e storia all’acqua e la terra. «Porto è uno stile di colore – scrive Saramago –, un’armonia fra il granito e i colori della terra che il granito accetta, a eccezione dell’azzurro se con il bianco trova un equilibrio nell’azulejo», trionfante alla stazione di São Bento e alla Capela das Almas.
Città di grandi salite, molti gradini, enormi finestre, vivi colori, pochi restauri, svariate cantine – di porto, principalmente – e negozi di vino, bottiglie, trippe e salumi.
A proposito di trippe e salumi. Le guide consigliano di pranzare in rua Mercadores. Locali profondi, stretti, chitarre e foto appesi alle pareti. Col fado nell'aere. Il cameriere è affabile ma per il conto la simpatia non conta: stuzzichini d'ingresso che invogliano – ma finiscono infingardamente a carico, que dolor! «Guardi che noi di Oporto non truffiamo nessuno, non facciamo percorsi inutili per spillare soldi ai passeggeri, non siamo mica a Lisbona, sa», assicura nel romanzo di Tabucchi un tassista a Firmino, convinto invece del contrario. Chi avrà ragione?
E poi chiese a profusione, retaggio di opulenza coloniale: dos Clerigos, Santo Ildefonso, Carmlitas e do Carmo… Queste ultime separate solo da un vano. A sfavillare però resta São Francisco, sempre lui, oro e luccichio barocco. Risposta portoghese alle omonime brasiliane di Salvador de Bahia e Ouro Preto. Almeno a Porto hanno avuto il buon gusto di sconsacrare l'edificio: troppo sfarzo, sfrontato in fronte alla miseria, per essere anche sacro.
Nel cuore della città, il museo d'arte contemporanea Fundação Serralves mantiene le promesse. Nel bene e nel male: chi apprezza il genere sguazza tra minimal art e installazioni video, quadri che aggettiva “concettuali”. Chi invece ama il Rinascimento può dedicarsi con maggior profitto alla palingenesi del porto nel ristorante sul terrazzo o al giardino esterno: rigogliosi alberi a guisa di sombreros che per il botanico e l'amante del silenzio da soli valgono il biglietto. E lì perdersi leggendo Jorge De Sena che canta il suo rabbioso Portogallo «…terra triste/ alla luce del sole calata, imbellettata, vile,/ piena di cortesie per gli stranieri/ che lasciano monete e trasportano pulci, /oh pulci lusitane, per l’Europa» per infine abdicare con i versi di Fernando Pessoa: «… La regalità ho smesso, anima e corpo,/ per ritornare a notte antica e calma,/ come il paesaggio, quando il giorno muore».
Maurilio Barozzi - L'Adige, 4 novembre 2024
La galleria fotografica di Porto
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