Il due giugno del 2000, a Terlago (TN) gli amanti Giuliano Cattoni e Isabella Agostini hanno ucciso a sprangate il marito di lei, Michele Santoni, sposato solo otto mesi prima. Del delitto si è detto e scritto in tutti i modi, ma a margine è emerso un particolare che mi ha incuriosito: Isabella e Michele si erano conosciuti giocando a freccette, così come Giuliano e Isabella, qualche tempo più tardi. E siccome ho sempre pensato che quel giochino fosse una vera noia, mi sembrava stimolante rileggerlo come momento d'incontro.
Così, dimenticata l'urgenza della cronaca e attutito l'elemento temporale che permea di emozione qualsiasi cosa si veda e si scriva, ho aspettato qualche giorno (c'era anche una faccenda di ferie del locale, in mezzo) e sono andato su. Per provare a capire questa fetta di Trentino
BRUSINO (Trento) - Forse non ti resta molto altro, la sera, se non hai la macchina e sei uno dei 232 abitanti di Brusino, frazione di Cavedine: lanciare freccette in un pub. Per arrivarci, da Trento devi percorrere per quasi 25 chilometri una strada secondaria, in mezzo a prati e vigne. Lentamente: se hai fortuna mentre guidi incontri caprioli e lepri. Se hai sfortuna oltre a caprioli e lepri ci incontri anche i carabinieri che – siccome non passa nessun altro e loro i controlli li devono pur fare – ti fermano e ti fanno l'etilometro per vedere quanto alcool hai bevuto.
Appena su, a mezza montagna, i cartelli prima ancora del campo da calcio o della scuola ti indicano il pub Red & Black, paninoteca e birreria. Chissà che posto, ti dici.
Parcheggi a un centinaio di metri perché le viuzze interne all'abitato ricordano un barrio moresco e sono troppo strette per la macchina. In due passi lo trovi: è un bar molto normale. Né bello né brutto, normale. Arredato in legno, ma più chiaro e luminoso dei classici irish. Dentro sono alcuni giovanotti. Tutti maschi. Bevono birra, parlano col contagocce, giocano a freccette.
Freccette? Eccome. E vanno avanti per ore, senza interrompersi. Hanno resistenza da vendere. Pagano cinquecento lire per dieci tornate (trenta tiri a testa) e via, parte la sfida. Qualcuno si distrae anche con il videopoker o guardando la tivù, ma sono le freccette il vero richiamo.
Il giochino è di una ripetitività che ti fa venire il nervoso, a guardare. Si sta a circa due metri e mezzo dal bersaglio – un congegno elettronico alto come un armadio con all'altezza degli occhi un cerchio di gomma del diametro di una cinquantina i centimetri diviso a fette, ogni fetta tot punti – e ci si scaglia contro una freccetta. Quando si conficca, la saetta fa suonare una sirena gracchiante e il display indica il punteggio. Ciascun concorrente tira tre volte consecutive; poi è l'avversario, poi ancora il primo e via così. Per sempre. L'obiettivo è quello di ridurre esattamente a zero il monte punti iniziale. Una specie di tara che viene limata lancio dopo lancio. E che viene raschiata e resa lucente solamente da un ultimo colpo esatto, quello che ti porta a zero.
A pensarci è una cosa da mettere a prova i caratteri più solidi. Niente variabili. Stessa distanza dal bersaglio, stessa luce, stesso gracidare distorto da mal di testa, sempre la stessa freccetta, un piccolo dardo che pesa si e no dieci grammi, è lungo come una matita e nella parte finale ha uno svolazzo che ne mantiene l'assetto durante il volo.
Una volta nei bar c'era la briscola, tutta un'altra faccenda: lì esiste la possibilità che il tuo compagno faccia un errore, che tu giochi la carta sbagliata o che l'avversario scompagini tutto calando un asso. Devi ripensare, cambiare lo schema, improvvisare, sperare di pescare bene, avere un colpo di fortuna.
Le freccette no. Non ti allenano a sperare, a gestire l'imprevisto. Ma chiunque può essere il migliore. Tutto uguale: decide la mano. Il gomito fa una specie di catapulta con l'avambraccio e le dita lasciano partire la freccetta. Centinaia di volte, in una serata. A caccia dell'obiettivo. Non è che – nel bar – ci possa essere un refolo di vento che influenzi il tiro, o la possibilità che l'avversario scivoli e sbagli malamente. È tutto scientifico, qualcosa che comprime la fantasia in un sottile fascio convogliato sul bersaglio. Un'ossessione.
Quando arriva il colpo eccezionale – e prima o poi arriva, basta aspettare: ma come hanno fatto due giocatori come Isabella e Giuliano a perdere le staffe, esercitati ad attendere, con inossidabile pazienza, tutte le sere un lancio da applauso? – il bersaglio elettrico nitrisce. È un segnale: chi ha tirato lascia la freccetta piantata per un po' di tempo, e invita gli altri a guardare. Con la passerella d'onore sfoga la tensione della ripetitività, una camera di decompressione per quell'egualitarismo maniacale. La soddisfazione della giornata. Giù un sorso di birra. Poi avanti, fine della gloria. Si continua a giocare.
Guardo un momento, poi esco. Sfinito e sconfitto per non aver capito niente: ma cosa diavolo mai ci sarà in quel barbosissimo passatempo?
Fuori è il nulla. Non c'è un'anima, poca luce a illuminare i portici e la piazzetta, deserti. Il paesaggio è bello. Quella cinquantina di case, unite da vicoli discreti in una rete, sono circondate dal verde, e i monti disegnano una silhouette nitida contro il cielo che, anche se è già buio, puoi vedere terso e limpido, senza quella foschia da inquinamento di città. È molto bello, d'accordo. Ma se uno ci abita lo vede tutti i giorni, non è che ci possa far sempre caso. Così l'alternativa al bar è filare a casa. Comincio a comprendere anche il senso di quel gioco: forgia ad accettare la routine e rappresenta la calamita di un pezzo di Trentino che se ne sta andando, che ha le ore contate. Se ne sarebbe già andato, se non ci fossero quelle freccette a inchiodarne parte in un pub. Ma per quanto, ancora?
Ritorno dentro, che nel frattempo sono arrivate alcune ragazze.
I più bravi si portano freccette personali. Quando non giocano le custodiscono in un astuccio. Non che vadano meglio di quelle messe a disposizione dal barista, ma tutte le discipline che necessitano un attrezzo stimolano il possesso. Il tennista ha la propria racchetta, il campione di biliardo la sua stecca e così via. Anche il freccettista, uguale. È la consacrazione del giocatore non occasionale. Lì al pub – inoltre – hanno messo su una squadretta per andare in altri due o tre locali della vallata e organizzare sfide, incontrare gente. Insomma: rompere quel rituale che poi riprenderà, imperterrito, una volta di fronte al bersaglio.
C'è un capitano che, investito dal titolare, osserva e sceglie di volta in volta i giocatori più in forma e li convoca per i match a squadre del fine settimana. Sono loro le star dell'ambiente. E le ragazzine stravedono per questi primattori. Che, tra un lancio e l'altro, se la partita non è di quelle decisive, si aggirano per i tavoli o vicino al bancone dove ci si siede su alti sgabelli in legno, strizzano loro l'occhio e le invitano: «Partitina?». Roba da anni ruggenti, tipo Happy Days. Poi magari le lasciano vincere. Oppure, i più scafati, insegnano la tecnica per tirare meglio: le cingono e da dietro guidano il loro braccio nel lancio. Allora è fatta: le freccette da paranoica sfida con se stessi, prima ancora che con gli altri, diventano miniatura della mitica azione di Cupido. Un buon modo per conoscersi, no? Forse l'unico, se abiti in una valle ai piedi dei monti, distante da tutto e da tutti.
Certo, quello delle freccette è un momento. Infatti questo non è un articolo sulla vita valligiana. Né, tanto meno, su Brusino. Per riuscire a descrivere davvero quella – seppur piccola – frazione, bisognerebbe dire dell'asfalto scavato, rotto e rappezzato che non ti fa camminare diritto nei vicoli e sotto i portici in pietra; dei balconi che traboccano di fiori; del nome delle piccole vie scritto grande sugli angoli delle case dalla pietra a vista; dell'odore dell'erba alta, non ancora segata che si respira alle nove di sera e che quando arrivi può farti pensare ad un ranch più che a un paese; del silenzio sospeso solo da qualche parola scambiata sulla panchina della piazza o dai bambini di cinque anni che giocano soli in strada con la palla. E avrei dovuto scrivere del discutere di politica e di calcio, lì in taverna; di case con gli orti davanti; del giovanotto con le Nike ai piedi e i jeans Levi's – come alla Tv – che passa e saluta per nome un uomo in canottiera affacciato alla finestra al primo piano, e di lui che risponde «Tuo padre sta bene?»; di stradine da fare in salita e da rifare in discesa; di attrezzi da campo appoggiati sull'esterno del muro di casa; di porte aperte e la luce che esce fin sulla via. Ma, per spiegare quella zona, si dovrebbe dire anche di una strada sperduta che inanella Calavino, Lasino, Stravino, Cavedine, come un filo tiene unite le perle di una collana estiva; degli agritur dove le padrone-cameriere ti servono selvaggina; della malinconia di una giornata ingrigita dalle nuvole e dalla pioggia; e della malinconia di due giornate di nuvole e pioggia; della storia racchiusa tra le pareti di Castel Madruzzo (e mi scapperebbe di infilarci la mia testarda avversione a credere alla faccenda dello jus primae noctis che qualcuno giura esser stato applicato); dei residui di preistoria incastonati nelle rocce; delle frequenti e frequentate sagre paesane; del sorriso a metà tra l'educato e il forzato di chi ti vede arrivare e non ti conosce e non sa bene cosa ci sei venuto a fare, quassù (nonostante la storia, la preistoria...). E comunque bisognerebbe ricordare anche che se uno vuole andare a scuola ci deve andare chissà dove; e che se è andato a scuola poi dovrà anche lavorare chissà dove, perché lì se è diplomato o laureato ha ben poche speranze di trovarlo, un impiego. No, decisamente non è un pezzo sulla val di Cavedine.
Ma non è neanche uno scritto su due amanti assassini e un marito accoppato conosciutisi lanciando freccette: è già stato definito e analizzato a dovere. E farebbe parlare di amori finiti troppo presto – o troppo tardi –; di piastrellisti nevrotici; di lettere bambine spedite da donne ormai fatte; di televisione cattiva maestra; di passioni sfrenate; di alibi sgangherati; di albanesi incolpati; di telefonini che trillano; di lame, di sangue, di gole sgozzate; di bastonate vigliacche sulla schiena di un uomo ingenuo; di eredità e di femmine fatali. Di amorevoli compassioni o spietate sentenze. E di emozioni forti.
Il fatto è che quando sono andato a Brusino non volevo emozionarmi. Volevo solo vedere, farmi un'idea di cosa possa significare per giovani tra i diciassette e i trent'anni il giocare a freccette per ore, lassù. Descrivere un minuscolo frammento di quelle vite, il piccolo pezzo di un grande e complesso puzzle. Solo quello.
Maurilio Barozzi
L’Adige, 6 luglio 2000
Replica alle lettere
A giudicare dal numero di lettere che sono arrivate al giornale sul mio articolo “Amore e freccette” (giovedì 6 luglio), devo aver urtato la sensibilità di alcune persone, in Val di Cavedine. Di questo sono sinceramente rincresciuto. Ma nel mio mestiere o si scrive ciò si suppone si dovrebbe scrivere per far piacere ai più; oppure si cerca di raccontare ciò che si vede (animali selvatici compresi). L’ho già detto chiaro allora, se può servire lo ribadisco adesso: quello non è un articolo sulla valle di Cavedine (non sono gli unici a giocare a freccette, si tranquillizzino). Né a maggior ragione un articolo pro o contro gli abitanti di quella zona, ci mancherebbe! Eppoi a che titolo?
Il fatto è che non sono convinto che i fatti dei quali ogni giorno diamo notizia non siano semplicemente belli o brutti; buoni o cattivi. Sono complessi. Tanto complessi che delle volte non ci rendiamo conto di cosa possano rappresentare anche dei piccoli dettagli, minuscoli elementi a margine. Per questo del delitto di Terlago mi hanno colpito le freccette. Personalmente non riuscivo a capire come un gioco ripetitivo e limitato nelle sue variabili creative – tipicamente individualista anche se giocato a squadre – diventi momento di comunicazione. Sostituisca nei bar la classica scartata a briscola che, viceversa, presenta sia connotati di fantasia sia – nel proprio linguaggio di segni convenzionali e nella capacità di saper leggere situazioni in coppia – di socialità. Trovavo particolarmente curioso, poi, che a volte le freccette diventino longa manus di Cupido. Sono andato a vedere una tessera tra le milioni che costituiscono i cambiamenti in atto in questi anni, tutto qui. L’ho raccontato, in quel contesto. Nessun giudizio.
Qualcuno fa notare che anche in Val di Cavedine c’è internet e ci sono laureati (sic). E chi ha detto il contrario? Vogliamo scherzare? Ma internet e il certificato di laurea – in sé – fanno socialità? Qualcun altro ribadisce che da Brusino a Trento in fin dei conti sono solo 25 chilometri. A parte il chilometraggio – che se non hai la macchina (l’ho già scritto, meglio ripeterlo) a’ voglia essere un buon podista – la questione che mi interessava era come il gioco delle freccette sia anche in grado di annullare le distanze, fisiche e sociali. A volte non faccia sentire la necessità di percorrerli, quei 25 chilometri. Questo è il senso di un gruppo di amici, di un bar di compagnie, di un paese. E in quel posto – a prescindere dal fatto che il giochino a me piaccia o meno – mi pare che in questo siano riusciti. Dire che un paese è bello perché in pochi minuti te ne puoi andare via, è semplicemente una bestialità che non vale la pena di commentare.
L’occasione per scrivere è stata un tragico fatto di sangue, d’accordo. Ma l’Adige è un quotidiano: noi che ci lavoriamo siamo costretti a legare i nostri ragionamenti all’oggi. E, mi si perdoni la brutalità, è stato proprio quel fatto di cronaca a farmi notare l’enorme contrasto che esiste tra un abominevole uccisione – frutto complessivo della contorta mente umana, di un istante di follia, di problemi macerati e rimossi per lungo tempo, di mille altre cose – e un giochino semplice e meccanico, una variante al “non t’arrabbiare” che allena alla routine. Inoltre, quell’omicidio è un atto orrendo che si è verificato in una valle tranquilla, piena di pace (da noi e in Alto Adige ce ne sono altre mille, come ci sono già stati diversi altri omicidi: perciò non va visto come un pezzo su quella zona): dell’anomia o della spersonalizzazione che vive un ragazzo del quartiere Zen di Palermo (o della città in genere) si dice ogni giorno a lato dei delitti e delle violenze quotidiane: c’è un contesto architettonico osceno; un ambiente degradato; l’esistenza è anonima; videogiochi; cattive compagnie; mancano la storia, le radici comuni...
In Val di Cavedine è tutto l’opposto. Per questo stride ancora più acuto il contrasto che produce quell’assassinio. Più una sirena che un campanello. Che induce a riflettere sul cambiamento dei costumi in corso. Pur cercando di resistere, aiutato dalla conformazione morfologica del posto e dalle dimensioni a misura d’uomo – una comunità, si dice talvolta –, il Trentino che raccontavano i nostri nonni sta sparendo. È ipocrita fingere che ciò non sia. Voltare la testa dall’altra non serve a schivare domande che – prima o poi – anche qui (L’Italia come dovrebbe essere, recitava qualche anno fa uno slogan dell’Azienda di promozione turistica) dovremo porci. E provare a rispondere, togliendo quell’immaginaria linea che ognuno di noi ha tracciata in testa: al di qua della quale (solitamente dove siamo o tendiamo a collocare il noi) tutto è bene, al di là tutto è male.
Mi spiace che dalla descrizione di un frammento di vita (che è tale, e tale vuole essere - come ho scritto allora) qualcuno si senta offeso. Ma è come se mi arrabbiassi con un amico perché mi dice che gli pare si sia accesa una spia sul cruscotto della macchina. In fin dei conti è l’auto nella quale entrambi stiamo viaggiando.
Maurilio Barozzi
L’Adige 16 luglio 2000
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