martedì 24 febbraio 1998
Suona particolarmente stonata la frase conclusiva dell’intervista di Carlo Andreotti pubblicata sull’Adige di ieri. Si può essere italiani in Alto Adige - afferma Andreotti - «accettando la realtà locale. Se io non accetto uno stato di cose - spiega - me ne vado». Purtroppo, il principio, nella sua estrema semplicità, è esattamente quello che ha fatto da motore allo scellerato patto sottoscritto da Mussolini e Hitler nel 1939. Le cosiddette opzioni. «Ho chiarito le mie idee in materia - disse Mussolini al suo ministro degli esteri Ciano -. Se i tedeschi si portano bene e sono rispettosi sudditi italiani, potrò favorire la loro cultura e la loro lingua»(Ciano, Diario 1937-38) . Altrimenti, è la conclusione pratica messa a punto con le opzioni, se ne possono andare. Un po’ quello che pare pensare Andreotti. Insomma: mentre si celebrano pomposamente gli anniversari dello Statuto e si proclama ad ogni occasione la necessità dell’autonomia, se ne perde di vista il significato profondo, filosofico. Quello dell’affermazione dei diritti fondamentali. Eppure lo statuto di autonomia è nato non solo come forma di tolleranza nei confronti di una minoranza linguistica (che è già sancita chiaramente dalla Costituzione italiana) ma come strumento a sua disposizione per affermare la propria identità e storia. Se la logica ispiratrice fosse invece quella sintetizzata da Carlo Andreotti, se non mi va bene me ne vado, non servirebbe alcuno Statuto. È come è successo in Ruanda. È quanto i talebani auspicano accada in Afganistan. È ciò che dovrebbero fare i curdi secondo i turchi, gli iraniani, gli iracheni e i siriani, palleggiandosi le responsabilità. Tuttavia, in cuor suo, probabilmente il presidente comprende il rischio. Difatti parla di una Regione a statuto speciale che è «un’assicurazione sulla vita». Dunque la certezza che un giorno qualcuno non venga a dire effettivamente: se così ti va bene, d’accordo. Altrimenti, quella è la porta. Ma c’è un altro elemento semantico che illumina il senso del regionalismo di Andreotti. Il suo richiamarsi così spesso ad un concetto che è una pura invenzione, senza alcun fondamento istituzionale: l’Europa delle regioni. Questa locuzione è stata prodotta da una lettura forzata del trattato di Maastricht, funzionale al progetto politico etnofederalista dei partiti particolaristi. E fa leva sulla convinzione - tutta da dimostrare - che la spinta regionalista attenui e non esasperi lo spirito nazionalista-sciovinista. Visto che il dibattito è aperto, conviene sgombrare il campo da uno solgan che - oltre ad ammaliare gli spiriti più semplici, come è caratteristica di tutti gli slogan - ha come peculiarità di essere un falso. Il Trattato di Maastricht, finora la Magna carta dell’Unione europea, non parla di Europa delle regioni. E le regioni, siano esse quelle regolarmente disegnate all’interno dei singoli Stati nazionali, che quelle più fantasiosamente ipotizzate in forma di macroregione o di euroregione, non sono mai contemplate nel Trattato come organo legittimato a deliberare. Nemmeno il vertice di Amsterdam (conferenza intergovernativa, sic!) ha cambiato questo stato di cose. Evidentemente in maniera consapevole visto che i presidenti delle regioni, e i sindaci delle città - riunitisi in un proprio vertice, a margine di quello di revisione del Trattato al quale partecipavano i capi del governo - avevano steso un documento in cui chiedevano esplicitamente di essere presi in considerazione dall’Unione europea in maniera più determinante. Esiste, questo sì, un Comitato delle regioni, citato, istituito e regolato nel capo quarto (artt. 198A, 198B e 198C) del Trattato di Maastricht, ma - innanzitutto - le sue funzioni sono esclusivamente di natura consultiva. Ciò significa evidentemente che la Commissione europea può legittimamente non tenere conto dei pareri forniti. C’è di più: anche il concetto stesso di regioni, così come è stabilito nel Trattato laddove si istituisce il Comitato, toglie ossigeno all’ipotesi forte che hanno in mente gli etnoregionalisti e i particolaristi. Il Comitato è composto da 222 membri, suddivisi tra i vari Stati europei non tanto a seconda dalle regioni da cui questi sono composti (come sarebbe lecito attendersi, se le regioni fossero contemplate come soggetto autonomo) quanto da equilibri basati sulla importanza più o meno ricoperta ed esercitata dai singoli Stati all’interno dell’Unione. «I membri - recita il Trattato - sono nominati su proposta dei rispettivi Stati membri». È così che l’Italia può contare 24 rappresentanti (le regioni non sono 20?) così come la Germania (costituita però da 16 länder), la Francia (22 regioni) ed il Regno Unito, che di fatto è addirittura suddiviso in 92 unità amministrative se si contano le contee dell’Inghilterra (46) e del Galles (8), le regioni della Scozia (12) ed i 26 distretti dell’Irlanda del Nord. Come se non bastasse, la Corte costituzionale tedesca ha sostenuto testualmente che «il trattato dell’Unione fonda un vincolo tra stati per una unione sempre più stretta dei popoli europei organizzati statualmente...». Risulta pertanto evidente - bello o brutto che sia - che le regioni ancora non sono un soggetto reale nella Comunità europea. Nonostante il Trattato e i documenti ufficiali dicano questo, ossessivamente nella nostra Regione alle trasmissioni televisive o radiofoniche, negli interventi di politici più o meno consapevoli, nelle sommarie dichiarazioni di improvvisati addetti stampa si sente parlare di questa fantomatica Europa delle regioni come formula adatta a «rendere i confini fili di seta» e a favorire la difesa dell’identità «come elemento distitivo in un mondo globalizzato». A parte qualche lapsus, grazie a Dio da qualche tempo i politici autonomisti trentini stanno correggendo il tiro sul progetto dell’euroregione, risparmiandoci le sirene sul «fascino» dell’Euregio Tirolo. Tuttavia, sulla semantica dell’«Europa delle regioni» - il sacco amniotico delle pulsioni etnofederaliste - il rigore terminologico pare non riuscire a far breccia. Il motivo è naturalmente quello di conservare, pronti alla bisogna, dei concetti-ponte che consentano collegamenti tra le diverse realtà che puntano all’autodeterminazione. Delle parole d’ordine che - tranquillizzanti nella loro retorica - hanno come obiettivo quello di tarmare le fondamenta su cui poggia la costruzione statuale. Finora l’unica istituzione in grado davvero di garantire i diritti anche di chi è diverso (per lingua, colore della pelle, idee e costumi, sfortune di nascita o disgrazie intercorse nel corso della vita) dalla gran parte di chi abita una zona geografica. Di chi è, appunto, minoranza. Maurilio Barozzi l’Adige e il Mattino 24 febbraio 1998
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