La speranza veniva tagliata netta, appena varcato quel portone. Una ghigliottina di pietra che sembrava aprirsi al cielo, e che invece quel cielo uccideva. O un’accetta celata sotto il cuscino.
Per colpire di notte, al buio, vigliaccamente. Quando ci entravano, ad Auschwitz, i deportati speravano. Ed è naturale: visti dall’alto, dal cassone di un treno, quei binari di ferro come portano dentro dovrebbero anche portare fuori. È solo se ti abbassi, se cambi la prospettiva, se sai già quel che è accaduto, che sopra ai sassi e alle rotaie, riesci anche a vederci una forma di lama, in quell’ingresso a torretta, freddamente geometrico. È solo quando ci posi una mano, che puoi sentire quanto sia gelido il contatto del filo spinato. Nel 58° anniversario della liberazione del campo di concentramento, leggo che il tempo sta sgretolando ogni ricordo materiale, che tra pochi anni quei brandelli vivi di testimonianza spariranno.
Rabbrividisco. Come rabbrividii quando vidi l’orrore. Auschwitz-Birkenau, Polonia. Muto. Di fronte a mucchi di valige, di occhiali, di scarpe, di capelli accatastati alla rinfusa come covoni di fieno. Vestiti logori, abiti fatti con gli stessi capelli tagliati ai prigionieri. Lì non c’è nulla da dire. Guardare. Tacere. Sei solo tu, l’orrore che hai di fronte, e il tuo dio. Pensi. Pensi a come sia stato possibile. Ti vergogni per chi l’ha fatto. E attorno c’è silenzio. Nessuno parla. Non servono esortazioni, lo capisci da solo. Tutti si stanno vergognando. Tutti si prova la stessa sensazione. Compassione. Tra mucchi di capelli, scarpe (60 mila paia), vestiti, ad Auschwitz ci sono anche cataste di pettini e brillantina. Pensi a uno che va al campo di concentramento e si porta dietro pettine e brillantina, per sistemarsi, per essere in ordine… E capisci che sperava. Che quell’ingresso non lo vedeva come una specie di ghigliottina del suo domani. Che non poteva piegarsi e cambiare prospettiva. Che poteva anche credere alla scritta dell’ingresso: il lavoro rende liberi. Che, dunque, accettava di scavare una fossa. Non sapendo che era la sua. Anche se qualche sciagurato vorrebbe riscrivere tali pagine di storia, purtroppo il dato resta. Un campo di concentramento Auschwitz-Birkenau che ha fatto oltre un milione di morti tra ebrei, zingari, prigionieri di guerra sovietici. Oltre 200 mila bambini.
Dalle 13 mila alle 20 mila persone mediamente detenute dal 14 giugno del 1940 al 27 gennaio 1945, con punte di 100 mila nell’agosto del 1944. Le foto resteranno. I filmati anche. Il tempo non li distruggerà. Per fortuna.
Ma non sarà la stessa cosa. C’è la tecnica, c’è la meccanica, c’è il particolare.
C’è un intrinseco slancio estetico che spesso - sempre? - setaccia i fulgori sinaptici più acuminati e li ricaccia indietro, in fondo a noi stessi, deviando il fuoco del problema. Le foto le commenti. I capelli, quei mucchi di capelli anonimi mischiati alla rinfusa, ti mettono di fronte al lato più osceno della morte. Tu e lei, che ti mostra la sua parte scura. Nient’altro.
Nessun altro. Sei solo anche se non sei solo. E pensi. C’è un’altra cosa però che mi piace ricordare, della mia visita ad Auschwitz. Quell’orrore, quello schifo, nel silenzio e nella compassione degli altri visitatori, dà come una specie di fiducia. È difficile da spiegare, ma capisci che tutti quelli che sono venuti lì, che hanno visto ciò che è successo, che si sono trovati a toccare quella sformata cicatrice che l’umanità si porterà per sempre addosso, non sono rimasti uguali. Sai che tra quelle facce agghiacciate potrai trovare qualcuno che - se qualcosa di simile dovesse riaccadere - si alzerà e dirà di no. Forse, in quel silenzio, c’era (c’è) il senso di una consapevolezza. La forza di piegarsi e guardare le cose da un’altra prospettiva. Prima che anche noi rimaniamo incanalati su binari di sola andata. Con, nella tasca dietro, pettine e brillantina. Che non ci serviranno più.
( L’Adige, 26 gennaio 2003. Prima pagina)
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