VIENNA GIU. ’98 - «È un anno che lavoro qui alla sede viennese delle Nazioni Unite ma non ho ancora visto la città». Non so come possa sentirsi, Mirjana Tomic, capouffico stampa dell’Unido - l’agenzia dell’Onu che si occupa di sviluppo industriale - nei panni di una metafora vivente. Di fatto, lei e tutti i suoi colleghi viennesi rappresentano questo. Lo scollamento tra le grandi organizzazioni internazionali, gli Stati e la società civile. Non ci sono punti di contatto tra questi mondi ad eccezione di voluminosi rapporti costruiti sulla base di statistiche e dati raccolti da istituti specializzati, che spesso non vengono poi letti nemmeno dalle autorità che li sottofirmano.
Mirjana Tomic, queste cose, le dice con una naturalezza che ti lascia di pietra, soprattutto se sono associate al suo curriculum. È solo un anno che intrattiene i rapporti con la stampa all’Unido. Prima, per conto del «Pais», il principale quotidiano spagnolo, si occupava di Balcani e di guerra. Quella vera. Quella combattuta in Bosnia. Ora passa i comunicati ai giornali nella speranza che in qualche redazione vi sia un caporedattore che giudichi opportuno pubblicarli. E trova così strano che nessuno lo faccia perché lei la guerra l’ha conosciuta. Sa cosa significa veder morire un proprio caro per una pallottola sparata dal fucile di un cecchino che neanche conosci. Sa - oggi - apprezzare la pace. Che all’Onu cercano di promuovere.
A Uno City - il nome del Vienna international Centre, dove sono ospitati gli uffici delle Nazioni unite che hanno sede nella capitale austriaca - lavorano 4.000 funzionari provenienti da 120 paesi diversi. Molti non conoscono il tedesco. Lì non serve. C’è tutto, a Uno City : mensa, villaggio dei funzionari, colleghi di lavoro che certamente parlano in inglese, francese, cinese e russo (le lingue dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza). A sette minuti di metropolitana c’è il centro di Vienna, il cuore della cultura mitteleuropea : alcuni dipendenti Onu, come Mirjana, nemmeno vanno a vederlo. Sono occupati da studi e progetti per stroncare i traffici internazionali di droga, dai problemi dello sviluppo industriale, da programmi di assistenza ai profughi. Oggi, infatti, la cosiddetta globalizzazione impone sempre di più di agire a livello internazionale o supernazionale. I problemi hanno dimensioni e scale sempre più imponenti. Travalicano i confini degli stati. Ma le difficoltà sono immense. «Non ci sono soldi», ripetono quasi ossessivamente i funzionari che abitano il palazzone a vetri delle agenzie Onu viennesi. In questi giorni particolarmente trafelati perché, settore per settore, devono presentare i loro piani di intervento. E cercare di ottenere i finanziamenti dai singoli governi.
Quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della nascita del Gatt, l’accordo generale sulle tariffe e il commercio, che dal 1995 si chiama Wto ed è diretto dall’italiano Renato Ruggiero. È anche il cinquantenario della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Pochissimi lo sanno. Per noi europei occidentali quest’anno è il cinquantatreesimo senza guerre. La maggior parte della popolazione non ha mai conosciuto la guerra. E pensa che la pace sia un fenomeno garantito dal cielo e scritto nelle stelle. Purtroppo non è così. Basti pensare alle prove atomiche condotte dall’India nei giorni scorsi. «Questi test hanno stabilito che l’India ha una provata capacità per la programmazione di armamenti nucleari», ha fatto scrivere martedì 12 maggio al «Wall Street Journal Europe» Brijesh Mishra, il principale aiutante del primo ministro indiano Atal Bihari Vajpayee. L’«International Herald Tribune» ha commentato sabato 16 che l’India ha voluto dimostrare di essere in grado di fare la bomba atomica per acquisire peso nel Consiglio mondiale di sicurezza dell’Onu. E il Pakistan ha risposto agli esperimenti facendone a sua volta, per provare al mondo la stessa cosa. Insomma : nell’era della globalizzazione, quando la Dichiarazione dei diritti dell’uomo compie cinquant’anni, gli Stati cercano di acquisire peso all’interno delle Nazioni unite (e nel Consiglio di sicurezza) - che come obiettivo fondante ha quello di mantenere la pace - assicurando al mondo di poter costruire la bomba atomica, insomma di far valere le proprie ragioni (di Stato) se necessario con le armi. In questo panorama le organizzazioni internazionali sembrano destinate a mera testimonianza. Eppure ci sono. E qualche risultato lo ottengono.
Il problema che tutti vivono, all’Onu, è principalmente quello di trovare il modo di governare il cambiamento, l’internazionalizzazione dell’economia e della politica. Recentemente, Renato Ruggiero ha sostenuto che il fatto di conoscere in tempo reale quanto succede nel Far East o in Cina e di preoccuparsene è un segnale positivo della globalizzazione. Il Papa ne ha moderatamente elogiato il corso per gli effetti promozionali che può avere sulla vita dei popoli. Certo che dalle cifre che si leggono nei rapporti patinati distribuiti nelle torri vetrate che ospitano l’Unido, il processo di inclusione è ancora di là da venire. Anche il vertice degli otto grandi, tenutosi lo scorso maggio a Birmingham, ha ribadito la sostanziale inadeguatezza delle misure adottate di fronte alle grandi dinamiche internazionali. Tutto sembra così vago, dalle sanzioni richieste per i test nucleari indiani, alla possibilità di ridurre il debito dell’Africa, stimato attorno ai 565.500 miliardi di lire. Ed anche la lotta alla criminalità organizzata internazionale, che pure ha occupato molto spazio durante il summit inglese, non pare sufficientemente incisiva, sia per quanto riguarda le armi, che le droghe ed i precursori chimici, cioè quegli additivi che consentono di raffinare il prodotto biologico fino a farlo diventare una sostanza stupefacente pronta per lo smercio.
Ma, nonostante tutti gli sforzi, l’Onu non potrà ottenere nulla senza l’aiuto degli Stati. Che, naturalmente, pongono delle condizioni, ad esempio quella che l’aiuto non possa danneggiare la propria economia. Di questi vincoli ne sanno qualche cosa le divisioni dell’Unido : quando propongono piani industriali devono presentare precise garanzie che essi non siano in conflitto con gli Stati che poi quel piano finanzieranno. E il compito non è facile, tanto è vero che gli Stati Uniti si sono ritirati da quest’agenzia alla fine del 1996. Così, per promuovere la pace e lo sviluppo, la ricerca e le energie che devono essere spese non sono mai abbastanza. Senza la minima garanzia di ottenere risultati.
Due passi da Uno City e sei di là dal Danubio. In mezzo a fiumi di persone che passano si trastullano allegramente. Tutti si fermano anche diversi minuti a guardare gli artisti che si esibiscono in improvvisati palcoscenici sulla Graben, e sulla Kärntner Straße : musicisti di ogni età, mimi, burattinai, ballerini. La gente, mentre applaude felice, è disposta a lasciare del denaro a queste persone. Per sostenere i costi dell’arte, per fare divertire i propri figlioletti. Sembra appestata - viceversa - la bambina che cammina sola mostrando ai passanti la foto di una donna uccisa da un gruppo di soldati turchi. Così come in quarantena sembrano le persone che sostengono un lenzuolo bianco con la scritta “Stop turkish army in Kurdistan”. Eppure sono anche loro sulla piazza della cattedrale di Santo Stefano. Sulla via dello struscio, dei morti in Kurdistan, di Giacarta che va in fiamme, bruciata dall’insolvenza delle banche controllate dall’allora dittatore Suharto, dell’India e il Pakistan che si misurano a suon di esperimenti nucleari, dell’Africa che muore di fame, in fin dei conti, chi se ne frega? In queste strade così imperiali e magniloquenti si respira un’altra globalizzazione. Quella del turismo. Di quella dei problemi comuni da risolvere non c’è traccia. Forse se ne riparlerà alla fine del week end. Dopo le ferie.
Maurilio Barozzi
(Altreconomia lug. ago. 1998)
Comments