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La fame americana di Fortunato Depero 30/01/2000

Aggiornamento: 14 lug 2023


Mucche a riposo sulla spiaggia di Goa

Stravaccato sulla scalinata di una stamberga, mentre faceva da modello al pittore Fortunato Depero, Guglielmo Macconi ripensò a quel giorno, subito dopo la guerra, in cui lo conobbe nella casa roveretana del ragionier Bizzarini.

«Stai fermo, Macconi», gli urlava il pittore. Ma lui era con la testa altrove, a quella serata dal Bizzarini. Mai avrebbe pensato che poi le cose si sarebbero messe così, e che tra i due sarebbe nata un’amicizia così solida.

Da principio, ricorda Macconi, quell’uomo irascibile e confusionario, attirato in maniera quasi paranoica dal nuovo, dai motori, dal progresso, pareva uno che cercava amicizie influenti. Compari danarosi che lo potessero aiutare a sbarcare il lunario comprandogli qualche quadro. E magari questa prima impressione poteva anche essere quella giusta. Epperò tra loro due pareva ormai nata un’amicizia che superava di gran lunga il materiale interesse per i soldi.

«Stai lì, Macconi. Vedrai che quadretto che ti preparo. Sta venendo una cosina coi fiocchi, eh Rosetta?; vero Anny?» punteggiava Depero, coinvolgendo anche le rispettive mogli.

Macconi era sicuro che sarebbe venuto fuori un buon lavoro. Aveva grande stima del pittore Depero. Sapeva che i numeri c’erano tutti per essere davvero un grande. A Mac — come lo chiamava amichevolmente Depero, a eredità fonetica del recente viaggio negli Stati Uniti — piaceva molto l’arte futurista. Queste pennellate secche dal tratto deciso e geometrico. Il suo preferito era Boccioni (così come lo è anche oggi), ma sull’amico Fortunato avrebbe tranquillamente scommesso. Anche per la grinta che il pittore aveva. «Non è da tutti ribellarsi al giudizio della Biennale di Venezia perché hanno accettato di esporre solo cinque opere anziché tutte e dieci quelle che lui aveva inviato. Solo chi ha grande carattere può permetterselo», pensava Mac. «Grande carattere».

Mentre faceva da modello, guardava ciò che dell’artista sbucava dalla tela che stava dipingendo: un pezzetto di testa e, sotto, le gambe che erano in perpetuo e nervoso movimento. Depero spostava il peso del corpo di continuo, da un piede all’altro, come se la terra gli scottasse sotto i piedi. E quei movimenti rapidi non lo lasciavano mai rilassare, la sua incapacità di stare fermo per più di pochi istanti nella stessa posizione doveva aver contribuito ad accentuare quel suo tratto caratteristico attratto dalla velocità e dal movimento.

«Dai Mac, non addormentarti. Finisco in un attimo. Ah... sai questo panorama mi fa venire voglia di bere un bel goccio di vino. Avrei voglia del mio preferito, lo Zignago, te lo ricordi quel rosso dei Marzotto? Ma visto che siamo sulle colline di Nogaredo — e non su quelle tra Vicenza e Treviso — va benissimo anche un goccio di Marzemino. Ehi, ma se tu bevi vino ti addormenti di botto», scherzava. E, continuando imperterrito a disegnare, quasi con frenesia, raccontò di quella volta che a New York fu sbattuto in cella per alcune ore. «Dì Mac, ti ho mai raccontato di quando fui rinchiuso in gattabuia, là a New York? Ho preso una bella strizza, quella volta. Ti ricordi Rosetta? E tutto perché avevo fatto pipì in Central Park. Tu che avresti fatto, Mac, se ti fossi trovato in quell’enorme parco e ti fosse scappata?», e giù a ridere.

Depero era così, pensava Macconi sorridendo al racconto che aveva appena udito. Continuava a parlare, raccontare storie, aneddoti. Era pieno di vita. E di fiducia. «La pace, la vita nei prati, nei boschi, al lago e nella villa, rappresentano il più bel soggiorno che finora abbiamo vissuto. Il Dio degli artisti e delle persone meritevoli (perdona l’immodestia) è veramente grande», gli aveva scritto nell’agosto del 1948 dal Connecticut, dopo che aveva dovuto lasciare la stamberga che abitava New York con Rosetta perché doveva essere abbattuta, ma aveva subito trovato ospitalità gratuita da questi signori Hillman, una ricca famiglia ebrea, amici del presidente Truman. Era il suo modo di lottare, di credere che alla fine in un modo o nell’altro le cose gli sarebbero andate bene. «Coraggiosamente ho rotto il ghiaccio e ho chiesto la mia posizione al signor Bosso — delle Cartiere Bosso di Torino — il quale ammirandomi e proteggendomi ha iniziato una discussione con Sozzi — un collega d’affari — (incomprensivo ed incapace). Finirò per vincere!».

«Dai Mac, adesso basta muoverti, stai li fermo su quella scala. Altrimenti mi vieni mosso. Hahaha» si divertiva quel pomeriggio Depero.

A Macconi veniva da ridere. E lo stimolò a ripensare al Futurista seduto davanti all’oblò della lavatrice, intento a sezionare, dividere, elencare uno a uno tutti i movimenti che quella ruota di acciaio incuneata nel ventre dell’elettrodomestico faceva prima di restituire i vestiti puliti. Così come glielo aveva scritto in una di quelle decine e decine di lettere dagli Usa. Lettere scritte sulla carta velina delle scarpe, l’unica carta inservibile per i suoi disegni. Lettere accorate, confidenti, di amicizia e di supplica. Macconi pensava proprio che - da quando il comune di Rovereto, in cambio delle sue opere e della costruzione del museo, gli dava un vitalizio - lo vedeva decisamente meglio, sottratto a quello che per un artista rimane il problema più difficilmente solvibile: quello economico.

Si era adattato a tutto, Depero, pur di sfangarla. Anche se quando i suoi colleghi, per denigrarlo, lo accusavano di disegnare la pubblicità per Campari, lui ribatteva sempre acido, ringhiando. Ma al suo amico Mac, strizzando l’occhio, poteva dirlo con un gioco di parole: «Campari è un modo di campare». Macconi ricordava bene di quel comune amico americano che Depero non aveva più voluto vedere perché una volta gli aveva detto nel suo italo-inglese «Se con i quadri non riesci a sopravvivere, perché non ti cerchi una jobba (un lavoro)?».

Ora, finalmente, Depero poteva pensare solo all’arte. Anche se non aveva perso del tutto l’abitudine del venditore porta-a-porta. Ogni tanto organizzava ancora qualche cena per invitare collezionisti e magari vendere qualche opera. Ma così, giusto per non perdere la mano.

«Guarda qui Mac. Ecco, questo sei tu. Cosa te ne pare?» chiese Depero appena terminato il disegno.

«Bello», rispose Macconi.

«Lo vuoi? Ti faccio un buon prezzo» ridacchiò Depero.

«Va bene - sospirò Macconi -. Lo compro».

Maurilio Barozzi l’Adige 30 gennaio 2000

Il lavoro, portato avanti a Luisa Pizzini che ha collaborato fattivamente anche all'intervista, è il frutto del colloquio con un industriale roveretano, Guglielmo Macconi, amico dell’artista, e della lettura di innumerevoli lettere che il pittore futurista aveva inviato dagli Usa per chiedere denaro. Lettere che Depero scrisse sempre sulla carta velina, l’unica che non poteva usare per la sua arte.

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