Tutti scrittori. Embé? (3/11/2013)
Aggiornamento: 31 ago
La letteratura è l'unica disciplina in cui i "selezionatori" si lamentano di avere troppi praticanti. Eppure da anni si va predicando che la concorrenza fa bene alla qualità. Non è che il problema siano proprio i "selezionatori", spesso troppo pigri (o incapaci)? O forse è un problema di mercato: chi è abituato a navigare in un oligopolio detesta che il bacino delle rendite si allarghi.

Ecco in sintesi la mia tesi. Molti sostengono che ci siano in giro troppi scrittori. E dunque? Non si è mai sentito che per costituire una buona nazionale di calcio il selezionatore si lamenti di avere troppi praticanti per le mani. Casomai il contrario. Poi sta a lui far la cernita. Se ha gli strumenti la farà bene, se è improvvisato valuterà le opere essenzialmente da chi gliele propone o dal numero di seguaci che l'autore vanta sui social media. Naturalmente ciò vale per la qualità dei libri proposti. Forse però il punto è un altro, e ha poco a vedere con la qualità, bensì con il mercato. Chi è abituato a navigare in un oligopolio detesta che il bacino delle rendite si allarghi.
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(3/11/2013) - Tempo fa il settimanale Internazionale ha pubblicato in un articolo (“Alibi”, n. 887 marzo 2011) la storia di una scrittrice, Amanda Hocking, che grazie ad Amazon ha trovato la sua strada vendendo centinaia di migliaia di libri. Lo stesso direttore De Mauro, autore dell’editoriale, esortava gli scrittori a fare lo stesso, precisando: «Amanda Hocking è la fine di un alibi per tutti i geni incompresi. Non ci sono più scuse».
Ora leggo con altrettanto interesse l’articolo di Jonathan Franzen “Cosa c’è che non va nel mondo moderno” (storia di copertina del n. 1022, ottobre 2013) che però, se ho ben capito, sostiene l’esatto contrario.
In quest’ultimo mi ha francamente sorpreso il modo in cui uno scrittore che reputo intelligente abbia risolto la faccenda della pubblicazione dei libri e del loro successo. Il lungo articolo, che approfitta delle sue vecchie traduzioni di Kraus per raccontarci l’Anticristo della pubblicazione online, sostiene che Amazon creerà «un mondo in cui avranno successo le opere di chiacchieroni, twittatori, e millantatori, e di chi si potrà permettere di pagare qualcuno per sfornare centinaia di recensioni a cinque stelle».
Tale passo è il nocciolo del ragionamento. Ma a questo punto, il concetto delle recensioni che secondo Franzen inquinano il web, penso meriti una piccola digressione
Lo stesso numero di Internazionale che raccontava di Amanda Hocking, ospitava anche un articolo apparso sul Guardian di Neal Gabler intitolato significativamente “I critici inutili”. Lì si raccontava di come la critica ufficiale – professionale – americana si muova spesso «in gregge». E, nel caso specifico, faceva riferimento proprio al romanzo di Franzen “Freedom”: «Praticamente tutti i critici letterari hanno dichiarato che "Freedom" di Jonathan Franzen, saga di una famiglia americana disfunzionale, è il romanzo del nostro tempo».
Ecco, mi chiedo: è di questa critica che sente la mancanza Franzen sul web?
Inoltre, par di capire che il senso del successo di un’opera, secondo l’articolo di Franzen, sia la vendita di molte copie. E l’appunto è che sul web vendano chiacchieroni e gente che si fa pubblicità da sola.
Il problema è che, in teoria, un libro inteso come opera letteraria dovrebbe essere considerato di successo se ha valore letterario: se mette l’autore in relazione con il territorio che descrive, con i suoi (siano dieci o dieci milioni) lettori, se offre spunti di riflessione, se induce a voler cambiare qualche cosa in una vita che forse sta prendendo una rotta che non è quella autenticamente cercata, se stabilisce dei punti di riferimento o se riesce ad incrinare delle supposte certezze. Insomma, se una storia tocca delle corde interiori e stimola un ragionamento essa è un’opera d’arte. E di per sé già un successo.
Mi pare, viceversa, molto debole il concetto secondo il quale il successo è misurato sulla base del numero dei lettori che, come è noto, sono influenzati da mille, più o meno raffinate, campagne di suggestione, spesso da una critica uniformata (come ha scritto Gabler, più asservita ai grandi gruppi editoriali che alla propria missione professionale) e quel che è peggio tale pubblico spesso non ha strumenti per valutare effettivamente ciò che sta leggendo (limitandoci all'Italia, credo che il rapporto dell’Ocse dell’8 ottobre 2013 - il 28% degli italiani non è in grado di comprendere un testo - parli piuttosto chiaro anche in merito a ciò). Seguendo l’attuale moda culinaria che imperversa e rispolverando una vecchia battuta alla Arbasino si potrebbe liquidare la faccenda dicendo che stabilire il successo di un’opera letteraria dal numero delle copie vendute sarebbe come giudicare il valore di un pasto da quanti coperti si servono: meglio una mensa aziendale o un ristorante gourmet? Potrebbe essere meglio una o l’altro. Si deve valutare caso per caso.
È qui che entra in ballo il ruolo di colui che giudica.

Nel suo articolo, Franzen prima racconta di giornali infetti da una corruzione pressoché endemica, poi - di fronte alla prospettiva che il libro stampato divenga «una specie a rischio» - rispolvera i buoni vecchi «recensori responsabili» e le «librerie indipendenti».
Corollario di tale scenario apocalittico sarebbe il fatto che con l’avvento di Amazon si abbasserà il prezzo dei libri e per gli scrittori sarà sempre più difficile fare gli scrittori a tempo pieno perché, dice non senza un fondo di ragione, «chi non guadagna molto vuole intrattenimento gratis, e chi ha una vita dura vuole gratificazioni istantanee». È una teoria abbastanza in voga tra diversi intellettuali.
Ancora: su un numero di Sette del Corriere della Sera (n. 39/2013), Roberto Cotroneo scrisse un articolo dal titolo “L’illusione degli scrittori”. Nel pezzo parlava del «dramma degli autori su internet», del «rischio di non essere letti da nessuno». Ma l’autore argomentava tale sua visione con una frase ad effetto che purtroppo è falsa come poche altre cose e sta all’origine di un fraintendimento culturale che sta facendo – quello sì – danni incalcolabili: è «il testo a dare identità all’autore, “Guerra e pace” fa Tolstoj, per intenderci, non viceversa».
Potrebbe anche essere vero, in linea teorica. Il fatto è che tale premessa oggi non è vera.
E la colpa non è di internet ma delle case editrici e delle librerie.
Bastano soltanto alcuni esempi a dimostrarlo.
Evitando di parlare di cattivi scrittori che vendono centinaia di migliaia di copie (a mio avviso ce ne sono, ma può essere una questione di gusti) solamente perché spinti dalle Case editrici più potenti, da pubblicità, distribuzione e da librai compiacenti, mi soffermo solo su chi scrittore non è – per autodefinizione – eppure pur provenendo da mondi completamente differenti rimane settimane o mesi in vetta alle classifiche dei libri più venduti italiani: vogliamo parlare dell’autobiografia di Del Piero? Delle barzellette di Totti? Delle freddure di Oreglio? Delle stravaganze della Litizzetto?
Si dirà: ma quegli articoli parlavano soltanto di libri di scrittori.
Niente da fare, ormai l’ibridismo è troppo pervasivo e spesso anche gli scrittori per così dire puri se ne sono giovati. Un esempio lo ha fatto Alessandro Baricco al Festival del Libro di Torino: volente o nolente oggi gli italiani acquistano mooooolti più libri rispetto a quelli che si acquistavano trenta, quaranta anni fa e ciò – comunque sia – ha permesso a svariate persone di vivere di questo mestiere. Naturalmente non significa che oggi circolino opere migliori di quelle di trenta, quarant’anni fa.
Un’ultima nota prima di chiudere. Secondo gli scritti di Cotroneo e dello stesso Franzen, sembrerebbe assicurare qualità ad un libro il fatto di essere passato attraverso le forche caudine delle case editrici, dei loro editor, dei loro lettori, dei loro valutatori. «Le sei maggiori case editrici – le big six – vengono uccise e divorate da Amazon», lancia il suo grido terrorizzato Franzen.
Mi pare che i primi a diluire il valore del libro come opera d’arte per renderlo più immediato, cercare un pubblico più vasto e dunque vendere più copie siano stati proprio gli editori. E in particolare i grandi editori. Ai quali poi si sono accodati i piccoli e pure i finti editori.
In origine, la giustificazione era che così, con i proventi di un’opera leggera (eufemismo per significare, spesso, spazzatura che si vende a milioni), potevano poi valorizzarne altre di qualità. Talvolta il giochino ha funzionato, talaltra no. Sta di fatto che ormai il dado è tratto e loro stessi hanno lanciato quel dado. Indietro non si torna. Aggiungerei en passant che sempre più spesso tali aziende editoriali delegano lo scouting di nuovi talenti (la lettura dei manoscritti) a ragazzi appena usciti dall’università, senza alcuna esperienza editoriale: se sul “Gattopardo” prese una topica (rifiutandolo per Einaudi) Vittorini, che volete che faccia un ragazzo di ventitre anni? Anche con le Case editrici la pubblicazione di un libro passa per migliaia di contatti, public relations, amicizie varie, agenzie, scassature di minchia che l’autore deve praticare con metodica ossessiva per giungere ad un risultato – pubblicazione, distribuzione, pubblicità – che se seguisse le canoniche vie della spedizione del manoscritto mai e poi mai otterrebbe. Ma questo fare public relations o farle fare da agenti specializzati non è esattamente ciò che fanno online i «chiacchieroni, twittatori e millantatori e chi si può permettere di pagare qualcuno per delle recensioni false» di cui parlava Franzen?
Allora, e vengo al dunque, lamentarsi della pubblicazione online (autopubblicazione) di molti romanzi mi pare davvero uno stucchevole esercizio retorico.
Produrre un romanzo, un’opera di finzione, per brutta che essa sia, richiede uno sforzo di progettazione, l’energia di scriverla fisicamente, la voglia di rileggerla. Per farla diventare un ebook in autonomia, anche la competenza minima di utilizzare un software informatico.
Ecco, capovolgiamo la prospettiva: in un mondo di analfabeti come è stato descritto dal recente rapporto Ocse, di gente che digita decine di tweet senza necessità di alcun costrutto, o che posta su facebook il fatto di star seduto/a sulla tazza del water a sfogliare la tal rivista, chi si sforza di ideare e portare a termine un libro mi sembra già un passo avanti. Se poi non lo leggerà nessuno, pazienza. Il libro è lì, a disposizione. Non è nascosto in qualche cassetto inarrivabile, né va a impolverare ulteriormente gli archivi di qualche casa editrice che non lo leggerà mai, e neppure ha causato selvaggi disboscamenti per la carta della stampa. Il libro è lì, come il coltello di Borges, attende che una mano (un clic) gli dia vita, leggendolo. Lo possono fare i critici (veri), i curiosi e chi ne sentirà il richiamo. Poi si vedrà. Senza l’ossessione di diventare famosi: per quello sarebbe consigliabile prima un reality televisivo.
Maurilio Barozzi (3/11/2013)