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Immagine del redattoreMaurilio Barozzi

Lussemburgo, l'Europa sull'occupazione 6/12/1997

Aggiornamento: 16 ago 2023



LUSSEMBURGO – Appena terminato il Consiglio europeo di Amsterdam, il 16 giugno scorso, al portavoce di Tony Blair era stato chiesto quanto posti di lavoro il premier ritenesse sarebbero stati creati dalle misure adottate dai Quindici. «Otto» era stata la risposta. Secca e inesorabile.

Oggi, dopo il Consiglio straordinario sull’occupazione di Lussemburgo, le attese non sono molto migliorate. Sebbene Lionel Jospin, il primo ministro francese, abbia parlato con toni trionfalistici di «nuovi parametri di Lussemburgo», le misure concretamente adottate nel corso del vertice non sembrano in grado di dare un giro di vite in un continente che oggi conta 18 milioni e 212 mila disoccupati.

L’unica cosa che con certezza è emersa dai documenti preparatori del Consiglio straordinario e dalle conclusioni firmate dai Quindici è il ruolo centrale che avrà nel rilancio dell’occupazione la piccola media impresa.

La via italiana all’occupazione

Pur non essendo citato esplicitamente, il modello di sviluppo che i capi di governo dei quindici Stati che attualmente compongono l’Unione europea hanno in mente è quello del Nord Est italiano. Tanto è vero che il presidente del Parlamento europeo, Josè Maria Gil-Robles, ha ricordato espressamente la Pmi nel suo intervento lussemburghese, aggettivandola come «creatrice di opportunità di lavoro». E, in effetti, questo modello pare reggere bene il confronto: le regioni in questione (Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia ed Emilia Romagna) fanno registrare complessivamente un tasso di disoccupazione del 5,3% contro un dato medio europeo del 10,9% (dati Eurostat all’aprile 1996).

Del resto non può sfuggire nemmeno un altro numero che in questo campo risulta fondamentale: «Nel corso dello scorso decennio - ha detto nella sua relazione d’apertura dei lavori il presidente del Parlamento europeo Josè Marìa Gil-Robles - alle piccole e medie imprese dobbiamo approssimativamente l’80% dei posti di lavoro generati nel settore privato. E’ quindi opportuno - ha ammonito - approvare misure orizzontali che consentano a queste imprese di beneficiare al massimo del mercato interno». L’Unione europea - dal canto suo - può dare una mano con una serie di iniziative che vanno dallo sviluppo di programmi specifici per l’occupazione, al finanziamento di alcune iniziative. Può essere importante ricordare che il programma dei centri europei d’impresa e innovazione dal 1984 ha permesso la creazione di 5.600 imprese innovative che - a loro volta - hanno generato (o quantomeno consolidato) 27.000 posti di lavoro. Non molto, se confrontati ai 18.212.500 disoccupati che si contano oggi in Europa, ma è pur sempre qualche cosa.

Così gli Stati membri - che rimarranno comunque i titolari di tutte le politiche occupazionali - hanno focalizzato sulla Pmi il loro interesse. E il presidente del Consiglio italiano, Romano Prodi, nella conferenza stampa del Lussemburgo ha insistito a sua volta sulla tenuta del modello. Annunciando tra l’altro che la Bei (banca europea per gli investimenti) metterà a disposizione 10 miliardi di Ecu (oltre 20 mila miliardi di lire) in dieci anni, gran parte dei quali interesseranno le piccole e medie imprese «con un indotto previsto di 30 miliardi di Ecu», ha aggiunto Prodi - riprendendo il punto 46 del documento finale approvato nel pomeriggio lussemburghese. Saranno inoltre stanziati 150 milioni di Ecu (oltre 300 miliardi di lire) all’anno da destinare a progetti pilota.

Il Comitato economico e sociale ha individuato poi anche alcuni dei terreni sui quali dovranno essere fatte convergere le energie per ottenere una risposta in termini occupazionali: si tratta di 17 campi (definiti esplicitamente «giacimenti occupazionali») che spaziano dai servizi, allo sviluppo commerciale, al turismo, alla gestione dei rifiuti, alla comunicazioni che potrebbero, secondo le stime della Commissione, produrre nei prossimi anni 3 milioni di posti di lavoro.

Di fronte a queste previsioni ottimistiche, le delusioni prodotte dal Consiglio europeo straordinario sull’occupazione - che partono comunque dal testo sull’occupazione partorito dal Consiglio di Amsterdam del giugno 1997 - stanno in una serie di dichiarazioni di intenti mai definitivamente quantificate. A differenza dei parametri economici, per i quali il rigore si è dimostrato quasi maniacale, per la politica occupazionale il dato numerico non costituisce una discriminante. Anche se l’obiettivo dovrebbe essere quello di ridurre il tasso di disoccupazione dal 10,7% al 7% entro il Duemila, tale «parametro» (così come ha detto Lionel Jospin, primo ministro francese) non sarà certo vincolante. Faceva notare qualche giorno fa Barry James, un editorialista dell’International Herald Tribune, che la Spagna - pur avendo incrementato notevolmente in questi ultimi anni il numero degli occupati - non riuscirà a spostare significativamente la percentuale dei suoi disoccupati, che Eurostat indica in 22,3% nel 1996 (contro un 10,9% della media dell’Europa dei Quindici). Ciò è ancora più impressionante se si considera che lo scorso anno, ben 350 mila dei 590 mila posti di lavoro creati in Europa, sono stati creati dalla Spagna. Che conta, tra l’altro, di creare 335 mila posti di lavoro dei 700 mila previsti in Europa per il 1997. Forse la percentuale potrà così scendere fino al 17 per cento: ancora poco rispetto al 7% di senza lavoro che è l’obiettivo che la Commissione europea spera di raggiungere nel giro di cinque anni. Secondo la Commissione per l’occupazione e gli affari sociali, che ha preparato nei dettagli le cifre per il Consiglio straordinario europeo del Lussemburgo della settimana scorsa, gli Stati membri dovranno investire in una forza-lavoro competente qualificata e flessibile e un mercato del lavoro in grado di reagire con la massima flessibilità: stando ai calcoli della Commissione europea, nel giro di 10 anni l’80% della tecnologia utilizzata oggi sarà superato; senza un adeguato aggiornamento, l’80% dei lavoratori si ritroverà con conoscenze e specializzazioni superate. Un occhio di riguardo degli investimenti europei riguarderà dunque la formazione professionale. Il 50% dei 18 milioni di disoccupati nell’Unione è senza lavoro da più di un anno, il 30% da 2 o più anni: per questi lavoratori senza una opportuna riqualificazione tutto diventerà più difficile ogni giorno che passa. E poi ci sono i giovani: il 20% dei disoccupati appartiene a questa categoria. Inoltre, vanno tenute in conto le esigenze dei portatori di handicap, tra i quali il tasso di disoccupazione si situa tra il 50 ed il 70%.

Gli impegni presi dai Quindici

Il vertice del Lussemburgo è stato la prima conseguenza dell’introduzione del titolo sull’occupazione del Trattato della Comunità europea integrato al Consiglio di Amsterdam, nel giugno 1997. Quattro sono i punti principali. Innanzitutto la dichiarazione formale che gli Stati considerano la promozione dell’occupazione «una questione di interesse comune» e devono, di conseguenza, coordinare in sede di Consiglio le loro azioni al riguardo (art.2).

L’articolo 3 precisa poi che «nella definizione e nell’attuazione delle politiche e delle attività comunitarie si tiene conto dell’obiettivo di un livello di occupazione elevato». Il consiglio può anche elaborare annualmente - a maggioranza qualificata - orientamenti in materia di occupazione, alla luce dei quali esamina la politica dell’occupazione dagli stati membri e può rivolgere raccomandazioni ai singoli Stati. Secondo l’articolo 4 del nuovo titolo gli orientamenti in materia di occupazione debbono essere coerenti con gli indirizzi di massima. Su queste basi il Consiglio può adottare azioni di incentivazione. E in Lussemburgo queste indicazioni sono state riprodotte. Ancorché senza una quantificazione precisa per la valutazione dei risultati.

Resta da dire del Trentino Alto Adige. Che per la verità pare essere colpito solo di striscio dal problema occupazionale: secondo i dati Eurostat, con il suo 3,4% di senza lavoro la regione fa registrare la seconda performance assoluta rispetto a tutte le altre regioni d’Europa, alla pari della regione greca del Kriti (Creta) e superata solamente dal Land austriaco Oberösterreich (capoluogo: Linz, con il 3,3%). Ciò comunque non significa che il Trentino Alto Adige non possa beneficiare degli stanziamenti aggiuntivi deliberati dal Consiglio europeo. Anzi. Le piccole e medie imprese che dovessero investire secondo i criteri individuati dai quattro pilastri fondati a Lussemburgo (imprenditorialità, occupabilità, adattabilità e pari opportunità) saranno certamente aiutate dalla Comunità europea. O dalla Banca europea degli investimenti che sta creando un fondo speciale di garanzia per l’accesso al credito. Dipende da loro.


Maurilio Barozzi

(L'Adige e il Mattino 06/12/1997)

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