Sarà curioso, per chi non disdegna l’esercizio di custodire la memoria, vedere tra un po' di anni cosa diremo riguardo alla caduta del governo Draghi. Così come riguardo alla sua formazione, in realtà. Ma anche cosa diremo dell'operato di altri governi. O dei politici che si proporranno da oggi a settembre, in vista delle elezioni.
Perché, condannati dall'urgenza del giorno dopo giorno – e accerchiati dall’immediatezza dei social network –, spesso siamo portati a dare letture affrettate a eventi che ancora non hanno mostrato la reale tridimensionalità offerta solo dal tempo. La profondità dei veri retroscena. Il sale delle ragioni autentiche che hanno spinto un individuo a fare determinate scelte piuttosto che altre. Il tempo, dunque.
C'è una poesia di Eugenio Montale che in qualche modo, forse il migliore possibile, parla di questo tema. La poesia si chiama “Le Stagioni” ed è inserita nella raccolta “Satura” del 1971. Racconta di come l'ideale – il sogno – non possa nascere dalle stagioni, dunque dalla contemporaneità.
Il mio sogno, scrive Montale: «non è nell'inverno/ che spinge accanto a stanchi termosifoni/ e spruzza di ghiaccioli i capelli già grigi/ e non nei falò accesi nelle periferie/ delle pandemie erranti (...)».
«Il mio sogno non è nella primavera/(...) nell'illusione che ormai più non piova o pioverà forse altrove, chissà dove./ Il mio sogno non è nell'estate nevrotica di falsi miraggi (…) e non nelle subacquee peregrinazioni di chi affonda con sé e col suo passato./
Il mio sogno non è nell'autunno/ fumicoso, avvinato, rinvenibile/ solo nei calendari o nelle fiere/ del Barbanera (...)».
Niente di tutto questo.
«Il mio sogno non sorge mai dal grembo
delle stagioni, ma nell'intemporaneo
che vive dove muoiono le ragioni
e Dio sa s'era tempo; o s'era inutile».
Eugenio Montale, “Le Stagioni”, in “Satura”, Mondadori, 1971.
(L'Adige 8/1/2022)
Maurilio Barozzi
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