I garibaldini sono sbarcati in Sicilia e la nobiltà si sente in pericolo: le loro prerogative sono a rischio, i borghesi fremono per prendere il potere. Il principe di Salina, Don Fabrizio, attende rassegnato il corso degli eventi invece suo nipote Tancredi lo scuote dal torpore: si unisce alla rivoluzione perché: «se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» sostiene. Con il passare del tempo, il principe Fabrizio condivide sempre di più le parole di Tancredi che in un primo momento aveva considerato «enigmatiche». «Viviamo in una realtà mobile alla quale cerchiamo di adattarci come le alghe si piegano sotto la spinta del mare» spiegherà a Padre Pirrone. E quando, dopo l'annessione del Regno delle due Sicilie, il governo di Torino inviò l’emissario Chevallery per proporre al principe Fabrizio un seggio al Senato, Don Fabrizio risponde: «Voi adesso avete bisogno di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta più al 'come' che al 'perché' e che siano abili a mascherare, volevo dire a contemperare, il loro interesse particolare con le vaghe idealità politiche». Dunque propone di offrire la carica politica a Calogero Sedàra perché «più che quel che Lei chiama prestigio, egli ha il potere; in mancanza dei meriti scientifici ne ha di pratici eccezionali». Tuttavia, il disincanto rende depresso il principe Fabrizio. «Tutto questo» pensa «non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli...; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra». Già, sembra scritto ieri, per oggi, “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, nel Bel Paese dove - per usare le parole di Chevallery - «il ricordo dei cattivi governi si cancella».
Tomasi di Lampedusa, “Il gattopardo”, Feltrinelli, 1969
(L'Adige 26/9/2022)
Maurilio Barozzi
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