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Pamplona, Viva San Firmin! (12/7/2003)

Aggiornamento: 16 ago 2023


Foto di "San Fermin Pamplona" da Pexels

PAMPLONA (Spagna) – Pamplona è un naufragio. Ci arrivi con "Fiesta" sotto il braccio e l'aria da letterato; la lasci coi vestiti sudici e lo sguardo vacuo da alcolizzato. Mi disse così un vecchio farabutto che conosco da oltre dieci anni, un amante della fiesta di San Fermin di Pamplona, dei tori, delle corride e - soprattutto - del rum. Ci sono stato sei volte: ho capito che, nonostante sia stata formulata da un autentico figlio di puttana, quella è una verità. Una regola.


Un tizio mi ha scritto che nel mio reportage del '98 avrebbe letto volentieri anche la descrizione della città. Amico, parliamoci chiaro: se sei a Pamplona a San Fermin è perché adori "Fiesta" di Hemingway. Se sei qui, sai che si beve, si vedono corride, si corre coi tori sulle strade di pietra viscida, non si dorme, ci si spruzza addosso il vino, si beve ancora e, quando non se ne può più, si scappa. Se cerchi una bella città, belle chiese, pinacoteche e musei, vai a Saragozza, Burgos, al limite anche Logroño (sempre per restare nei paraggi). Vuoi una bella spiaggia? C'è San Sebastian. Ma se vuoi questo, Pamplona non fa per te.


Comunque, la descrizione.


Sta sulle colline della Navarra, tra i fiumiciattoli Arga e Sadar. Ha un clima del cazzo che ricorda quello delle mie zone – nord Italia, caldo umido d'estate, aria gelida d'inverno. Nel centro storico: chiassuoli stretti e calli in pavé levigato dai passi; le pareti delle case quasi tutte di un marroncino chiaro, color niente, molte scrostate; tapparelle e imposte stan su per miracolo.

Se hai l'opportunità di sporgerti su un tetto, vedi tegole alla rinfusa, un proliferare selvaggio di antenne e la comparsa di rialzi (col mattone ancora a vista) o di verande-mansarda inventate alla bisogna: quasi quasi gli ultimi piani degli edifici cadenti e occupati abusivamente a l'Avana. Finis. In più, in giro si respira un asfissiante sentore di Opus dei che mette le mani su tutto quanto: università, uffici, cariche pubbliche. Insomma: niente di che. Qui devi venirci a San Fermin. Punto. Il fatto è che se ci vieni, poi non ne farai più a meno. Dopo questa descrizione, suona strano, no? Eppure.



Pamplona. Ci torno quest'anno per la sesta volta, dopo che l'anno scorso non ero venuto. Sono con un amico, Stefano, che da qualche giorno, per l'occasione, si fa chiamare Esteban. L'auto scivola giù da Roncisvalle. I finestrini abbassati inalano profumo di pino e aria fresca che fa frusciare le pagine di "Fiesta" di Hemingway, aperto sul sedile dietro. Dalle montagne dei Pirenei, distese di prati ingialliti e vacche. Poi, di colpo, la cintura urbana. Eccoci.

Per l'entrata in centro, voglio spararmi una musica forte. Esteban è perplesso: ho giù il finestrino, l'autoradio pompa la "Marcia trionfale" dell'Aida a tutta manetta. Fa un po’ tamarro? Chissenefrega, è il cinque di luglio, domani comincia la battaglia: vieni, o guerriero vindice.


In città, tutto pronto: le discoteche all'aperto piene di bandierine di fronte all'arena; le barreras (staccionate in legno semovibili) per la corse dei tori; i turisti che trascinano valige e cercano stanze disperatamente… Tutto come sempre. Tranne plaza del Castillo. Quella è diversa, completamente bianca passata da una sborrata di cemento e calce dopo che gli alberi che la perimetravano sono stati tagliati tutti. Cristo!, ma che diavolo hanno fatto?


Una ragazza, una lesbica che lavora in un bar dichiaratamente lesbico nel quartiere euskero, mi spiega: la sindaca ha ordinato di segare gli alberi. Lo hanno fatto di nascosto, nottetempo. La tizia è incazzata nera. Annuncia che proprio per quello scempio la sera è in programma una manifestazione di protesta. Porta una maglietta attillata con la scritta MARITRINI. Mi chiede se ci sarò anch'io a manifestare con loro. Le dico: «Dammi una cerveza». Esteban domanda cosa sia quel MARITRINI che ha sulla t-shirt. Lei spiega che Maritrini è una cantante «mucho, mucho caliente. Lesbian». Ma vah?, sai che non l'avrei detto, cara la mia Saffo?


Mentre ci spilla le birre, Esteban promette che la sera ci saremo anche noi in piazza contro il comune che ha fatto mozzare gli alberi. La 'Maritrini' mi guarda. Mi tocca dire: «Ok, ci sarò anch'io». Porca puttana, io avevo in mente altro che partecipare ad una manifestazione politica. Ma Esteban è così. Prima di andarcene, sia lei che le sue amiche ci baciano sulle guance. Neanche fossimo vecchi amici.


Sotto il sole giaguaro, setacciamo la città torrida a caccia di una stanza. Tempo perso. Cento euro a testa. Qualcuno si abbassa un po': centoventi per due. Uno arriva pure a 90 euro in due. Ma la stanza è un buco. Al diavolo, la solita storia, tutti gli anni. Così, prendiamo la macchina e ce ne usciamo, direzione Roncisvalle. Proviamo qua e là nei paesini, finché a Larrasoaña, pochi chilometri a est, la fortuna che non ti aspetti: sistemazione in un villino che offre alloggio ai pellegrini sulla via di Santiago de Compostela.


La stanza, una camera con bagno a parte, ampio e luminoso, costa 16 euro a zucca. Sotto c'è un bel giardino e il dirimpettaio ha pure la piscina. Ventura e Pilar, si chiamano così i due anziani - marito e moglie - che ci ospitano, ci danno le chiavi, ci dicono di fare come a casa nostra. Il vicino, un quarantenne con un paio di pargoletti che si porta in giro per mano, appena vede che scarichiamo i bagagli, si ferma a sparare due puttanate. Dice che domani andrà a bere a Pamplona, che tutto sarà chiuso per la Fiesta e nessuno lavora. «Sono tutti a bere vino, birra e calimocho», spiega. E mima col pollice alla bocca, nel caso non avessimo capito. Il calimocho è porcheria: cocacola e vino mischiati. Fa venire la cagarella, ma qui, soprattutto i giovani, ne vanno matti. Ah, se vogliamo - aggiunge - possiamo fare il bagno nella sua piscina. Ecchecazzo, altroché se ce lo facciamo un bel tuffo nella tua splendida piscina. Abbiamo anche il costume!

Dopo una nuotata rinfrescante nella bella piscina di Larrasoaña, faccio una doccia e mi rado. Poi con Esteban prendiamo la macchina e filiamo giù, di nuovo verso Pamplona.


Il sole è ormai una palla rosso fuoco e conferisce un aspetto poetico anche alla strada d'asfalto sfatto che fende i pascoli in fase di viraggio. Viste adesso, le pareti delle case di Pamplona sono dorate. La luce morbida avvolge tutto in colori vibranti, una tonalità senza ombre dure che, anche da distante, fa risaltare particolari insospettati alla mercé del chiaroscuro violento di mezzogiorno. La città sembra davvero adagiata e rilassata, nel tenue bagliore del crepuscolo. Quasi bella.


Parcheggiamo e torniamo nel quartiere euskero. È pieno di turisti d'ogni foggia: giovani, anziani donne, uomini, ricchi, poveri, scappati di casa, squatter, tossici e, naturalmente, curiosi. Un paradiso sognante, ovattato dall'alcol e dall'hashish. Nei supermercati, che da oggi staranno aperti 24 ore, un litro di San Miguel costa 80 centesimi. Ce ne compriamo un po' e beviamo seduti per terra vicino a un gruppo di hippy che si passano una canna. Esteban smania, glielo leggo negli occhi. Poi lo dice chiaro, mescendo il tutto con una certa filosofia sulle esperienze da fare, la conoscenza, i mondi paralleli e tutto un filotto di vaccate.

«Sai cos'è? È che non capisci un cazzo di niente e però continui a far prediche», gli dico.

Mi guarda e fa: «Vado predicando. Embè?».

A quel punto cosa puoi ribattere?


Alle undici è buio strafatto. Come ci aveva detto la Maritrini, inizia una manifestazione contro il sindaco. Pardon, LA sindaco. Tutti iniziano a fischiare senza ritmo. Battono con legni contro i cassonetti; scuotono e picchiano le inferriate dei negozi. Due corrono con una sirena in mano. La fanno ululare collegandola alla corrente dei bar. Si spostano di continuo: un minuto qua, poi filano di là, poi in un altro posto ancora…


Lo dico: quella sirena è sfibrante. Assieme allo sferragliare dei cancelli e al rimbombo dei bidoni, evapora anche odore di piscio. Fa caldo, sudo, ho la camicia fradicia sulla schiena e sotto le ascelle. Situazione insopportabile. Così vado a rintanarmi nel bar Etxia, lì a fianco.


Chiedo della birra in spagnolo castigliano e il tipo che serve finge di non capirmi. Vorrebbe solo clienti che parlano euskera.


Paziento.

Gliela richiedo.

Niente.

Allora mi va il sangue alla testa.


«Hijo de puta, vediamo se questo, in castigliano, lo capisci, eh? E questo, in italiano, brutta testa di cazzo… Ma guardati, con quella faccia da idiota che cazzo di rivoluzione vuoi fare, eh? Spini birre a chi ti paga tutto l'anno, muto come un pesce, ecco la tua rivoluzione, servo! E oggi, perché in questa topaia ti entrano due persone di più ti permetti anche di fare il figo? Ma vaffanculo. RIVOLUZIONARIO-DEI-MIEI-COGLIONI. Non sai neanche chi sia, tu, il dottor Ernesto Che Guevara. Puah».


Esteban mi salva portandomi via, mentre il barista accenna un sorriso come dire che ha capito, ma che continua a far finta di non capire. Non so come spiegare, queste cose mi mandano in bestia anche se ormai dovrei saperlo: in nessun angolo del mondo esiste modo di farsi servire da un barista a cui stai sulle palle. Con la sua solita flemma, Esteban dice che hanno ragione, che è la loro lingua, che non devono annacquare le loro origini e tutte quelle cazzate lì. Ovvio che a me non me ne frega un tubo, non è certo il momento di farmi un pistolotto, questo. Eppoi Pamplona si è inventata basca adesso, visto che fino a qualche anno fa non c'era nessuno che parlava euskera. «D'ora in poi ti chiamerò Etxia, come il bar. Così non mi scordo il nome», dico a Esteban. Ma lui è contento uguale, adora queste cose che sanno di rivoluzione. Anche se alla fine siamo rimasti a becco asciutto.


Sera tardi torniamo a Larrasoaña. Lassù, tra pini e erba tagliata, è silenzioso e fresco. Ci sediamo in veranda coi signori Ventura e Pilar. Ci offrono un bicchierino di Pacharan, il liquore tipico navarro. Dicono «Osasuna», che sta per «Salute», ma è anche la squadra di calcio di Pamplona. «Osasuna» e bevo. Ormai l'incazzatura mi è passata.



(Foto da Pexels)

È il sei di luglio. Il giorno del Chupinazo, l'inizio della festa (quest'anno cade di domenica). È anche il giorno degli aumenti. Per quella bottiglia di birra che fino ieri sera costava 80 centesimi, adesso ti sifonano 2 euro. A Pamplona non c'è un angolo in cui rifugiarsi dalla gente. Impastoiati nella calca, come in autobus all'ora di punta, non ci si muove lungo la strada, non si riesce ad entrare nei bar.



A mezzogiorno in punto esplode la festa e tutti - vestiti di bianco con foulard e fusciacca rossi - stappano bottiglie, tirano panini, si spiaccicano schiuma da barba e pastelle d'uovo sui capelli, bevono a canna e si sbrodolano la maglia, i pantaloni. Poi, in marcia lungo le strade del centro. La bolgia sembra un corpo unico, magmatico, bianco e rosso, che si muove. Lento, ma si muove. Tocca seguire. Giù da plaza de l'Ayuntamiento, verso plaza Castillo e paseo Sarasate. Poi di nuovo dentro, lungo le vie del centro storico ormai consacrate a simulacro della bottiglia rotta. Io me ne sbatto visto che indosso gli stivali, certo però che se uno arriva lì con le infradito…


Con Etxia (il nervoso di ieri mi sarà passato, ma il nome gli resta!) seguiamo il serpentone ubriaco e le varie bande che suonano musiche di ogni tipo. Anche noi beviamo birra. «Come mai hai ancora la camicia così bianca?», mi chiede una ragazzina. E intanto mi spruzza il vino da un otre di pelle. «Era bianca», preciso. Lei ride. Pare aver colto il mio puntiglio. Ma continua a spruzzare.


Etxia si sta facendo inondare da tutti la sua splendida maglietta con la scritta Maritrini (appena ho girato l'occhio, se ne è fatto vendere una dalla barista). Ora è più rossa che bianca. «La terrò sempre così, senza lavarla. Per ricordo», dice mentre imbocca una porticina anonima che ci fa finire in un centro sociale. Pare aver la calamita, per 'sti luoghi.


Sbuchiamo in un grande cortile interno. La birra costa un euro e c'è un esplicito cartello: fuori gli sbirri. Etxia è un angioletto al settimo cielo. Brama bagni d'umiltà. Sembra volersi riscattare dal destino che gli ha assegnato una posizione da ricco (garantisco che lo è, di famiglia). Cerca storie. Avventure che lo liberino temporaneamente dalla routine. Cerca locali brutti, topaie. Vuole vivere da povero.

«Sai – gli dico –, tu ignori, o fingi di ignorare, un dato semplice-semplice: non sei povero. È inutile che ti danni l'anima per dare di te stesso un'idea diversa. Anzi, vuoi sentirne una? Questa tua presa di posizione, se dovessero saltare fuori le tue origini, diventerebbe addirittura irritante, per i veri poveri. Perché, vedi, la povertà non è una scelta. Soprattutto per chi la vive 24 ore al giorno. Io, piuttosto, posso proclamarmi povero senza tema di smentita. Anzi, offrimi una birra».

«Ma vaffanculo, vah!».



Diavolo! Giornata pesante, quella del Chupinazo. Così Etxia ed io ci alziamo tardi e perdiamo il primo encierro dell'anno, previsto come sempre per le otto del mattino.

Ancora mezzi sbronzi, preferiamo trascorrere la giornata a Larrasoaña, nel giardino di Ventura e Pilar a prendere il sole, leggere un po', fare bagni nella piscina del vicino che anche oggi è andato a bere a Pamplona con moglie e bambini. Ma ci ha lasciato il permesso per la piscina. Mi piace quel tipo.

La signora Pilar ogni tanto sbuca sul balcone e ci fa segno di aver preparato qualche cosa: una volta prosciutto e melone; un'altra volta insalata con la maionese. C'è sempre qualche birra ghiacciata. Cazzo, un peccato dover morire.


La sera stiamo in veranda coi vecchi: chiacchierata rilassante a base di Pacharan. Mano a mano che beve, Ventura alza il volume della voce. Comincia raccontando del freddo che d'inverno si patisce, da queste parti. Dice di un pellegrino brasiliano diretto a Santiago de Compostela: disperso a novembre, fu ritrovato a marzo completamente congelato sui monti qui sopra. E, ridendo, indica con il braccio un punto lì davanti, nel buio. Ride anche Pilar. Dice che Ventura ha una comicità macabra. Lui ripete due volte la storia, insistendo molto sul fatto che - quando lo ritrovarono - il brasiliano aveva congelata sul viso un'espressione ebete, come se ridesse. Ovvio, era ibernato. Ma evito di farglielo presente.



Due giornalisti che non fanno domande? Eccezioni da cornice buona: non è il nostro caso. Tormentiamo Ventura e Pilar sull'Eta. All'inizio stentano un po'. Espongono solo versioni ufficiali. Dicono: l'Eta sbaglia a comportarsi così. Sbaglia a fare attentati. Sbaglia a uccidere. Pacharan. Piano piano cominciano a proclamare che la lingua euskera è molto, molto più antica del castigliano. Pacharan. Ventura dice: «Aznar - che lui chiama "El da el bigote", "Quello coi baffi" - sta facendo danni enormi e limita l'autonomia basca». Pacharan. Dice che negli ultimi vent'anni anche a Pamplona è aumentato il numero di chi parla euskera (da 1% a 22%). «Eppure - precisa - Pamplona è Navarra, non c'entra molto con le province Basche». Le cita segnandole con le dita: Guipuzcoa, Euskadi e Alava. Sia Ventura che Pilar sono di Bilbao e, Pacharan su Pacharan, ecco la loro natura basca. Oh, la! Ormeggi mollati: «L'omicidio di Carrero Blanco, il 20 dicembre 1973, è stata una cosa inevitabile, finanche giusta, tra quelle fatte dall'Eta». Pacharan. «"El da el bigote" non rispetta lo statuto di Guernica sulle minoranze basche, vidimato nel 1980». Ormai è notte piena. Tutto nero come il carbone, e non passa un'automobile a morire. Se smettiamo di parlare, si sente il frinire delle cicale. Nient'altro. Ci dicono che quando erano giovani, appena arrivati ad abitare lì, spesso passava una pattuglia della polizia per tenerli d'occhio. E ogni tanto succede ancora oggi, sebbene con meno frequenza.


Cambiamo traiettoria. Puntiamo i nostri flussi cerebrali su un'altra faccenda: l'Opus Dei. «A Pamplona controlla tutto» sentenzia Ventura. Pilar annuisce. Dice d'Escrivá de Balanguer, il fondatore. Sarebbe arrivato lì da Saragozza. Racconta del dominio Opus Dei su università (lui ha mandato il figlio a studiare a Madrid, proprio per sottrarlo a questo giogo) e mondo del lavoro. Pilar perfeziona le secche frasi di Ventura, le specifica, ma vanno d'accordo su ogni argomento.


Verso l'una e mezza Ventura beve l'ultimo. Si va a dormire. Domattina c'è il secondo encierro della Fiesta. Ci dà appuntamento alle otto precise, davanti alla televisione. Ventura dice che l'encierro si vede molto meglio alla tivù. «E non si rischia di essere incornati», aggiunge. Faccio notare che anche eminenti personalità corrono l'encierro. «Lo scrittore James Michener o Manuel Patarroyo, quello che ha scoperto il vaccino della malaria, per dirne un paio». Ventura alza le spalle e allarga un poco le braccia senza voltarsi mentre s'incammina verso la sua stanza.



Alle otto meno due minuti scendiamo dalla camera. Ci aspettano Pilar e la colazione. Ventura non c'è. La signora dice che suo marito resta a vedere l'encierro in camera. Etxia non l'ha mai visto, l'encierro. Vorrebbe sapere qualche cosa di più. Ma non c'è tempo per spiegare. Stanno inquadrando i tori, sette animali con attorno un po' di manzi che dovrebbero accompagnarli per le strade di Pamplona. Da lì fino all'arena, 850 metri all'impazzata nel cuore della città, in mezzo a centinaia di persone che corrono con loro.


Esplode un razzo. I tori sono liberi. Si capisce subito che non sarà tranquillo, questo encierro. I tori non restano uniti. Si disperdono. Entrano alla rinfusa in mezzo al fiume di folla in corsa. Quando si disuniscono sono pericolosi, difficili da controllare. Ne tieni d'occhio uno e perdi di vista gli altri. A gettare uno sguardo distratto, gli animali sono più di dieci. Ma quelli da temere, correndo in strada, sono i sette tori. Quelli incornano, i castrati no. Ora basta chiacchiere.


Alla rinfusa, impazziti con le bave alla bocca, gli animali corrono furiosi lungo le strade transennate. Qualcuno perde l'equilibrio, scivola a terra. Bestioni da 500 chili che schizzano come saponette sull'acciottolato. Meglio non essere in traiettoria. Un toro è fermo. Sbava rabbia. Si gira di scatto e incorna un uomo. Sembra un vecchio e finisce a terra. Il toro lo incorna ancora, e ancora. L'uomo è inerte, si direbbe un manichino, ma c'è sangue che cola sui pantaloni strappati dalle cornate. Due o tre coraggiosi cercano di distogliere l'animale dal suo gioco; lo tirano per la coda; uno usa il giornale arrotolato per colpirlo sul dorso e poi scappare. Finalmente il toro si scansa e riparte verso l'arena. L'uomo resta disteso sulla strada. Infermieri in giacca arancione saltano le barreras di legno massiccio dove sono arrampicate migliaia di persone. Portano le prime cure al ferito. Lui ricomincia a muoversi. Poi ecco l'ambulanza. Mentre lo caricano, il ferito alza il capo. Saluta una telecamera che è lì per inquadrarlo. Sembra contento, soddisfatto delle sue punteruolate. Avrà almeno settant'anni.


Ventura sbuca fuori dalla sua stanza ridacchiando. Ricorda la faccia dell'incornato e lo sfotte. Ribadisce che l'encierro è meglio guardarlo alla tivù.

«Ehi reporter, domani andiamo sul posto» dico a Etxia, impermeabile alla tesi di Ventura.

«Sicuro».

Per la cronaca, il Diario de Navarra del giorno dopo riporta: il ferito, tal Al Gleen Chesson, è americano. Corre encierri dal 1981. In questo periodo stava anche preparando una maratona. Tre cornate nella gamba destra. Nove punti di sutura sulla fronte. Un occhio pesto. Ecco il bilancio della sua impavida sfida col "cebada gago" chiamato Hormigón. Per un po' Al Gleen la maratona se la scorda.




Torniamo a noi. Quella sera Etxia ed io usciamo a mezzanotte. All'encierro del mattino ci si deve preparare con un dritto, niente letto. Ci accompagna una bottiglia di Martini rosso. Mi sta perfettamente nella tasca davanti dei jeans.


Tutti i locali sparano musica a pallettoni, dura prova per l'umano apparato fonoassorbente. Gente dappertutto. Una luce tagliente marca le ombre e illividisce le espressioni. Si balla al ritmo di musiche spagnoleggianti. Confesso: mi fanno cagare. Ricky Martin, roba del genere. Strano, solitamente vanno i classici dance anni '70. Quest'anno, nisba. Ma siamo qui, a Pamplona. Tutti ridono, cantano, ballano. Questi locali stracolmi mi evocano ricordi. Ad esempio Maria, una cantante con un sole tribale tatuato sulla spalla. L'ho conosciuta ad una fiesta di qualche anno fa. Non l'ho più rivista. Più un'epifania, che una storia. Mi pare si chiamasse Castillo, di cognome. O forse Carrillo… Boh.


Etxia è subito in forma. Muove il collo come un telescopio. Un paio di ganze gli entrano nel campo visivo. Sviluppa il suo piano. Per me fa acqua dappertutto, ma lui è convinto. Dunque. Sfruttando la bottiglia di Martini rosso che abbiamo, offre da bere ai maschietti assieme alle ragazze. Vuole farseli amici. E spera che poi - non ho ben capito secondo quale principio - gliele presentino. Naturalmente quelli bevono (il MIO Martini), ma non presentano nessuno. Del resto, solo un mentecatto presenterebbe la propria donna ad un altro, durante i sanfermines.


Lo lascio alle sue strategie da Rommel, con tanto di Martini, e mi avventuro nella giungla etilica a caccia di un supermercato. I ciottoli rettangolari dell'Estafeta sono coperti da sozzura d'ogni tipo: bottiglie, bicchieri di carta, foulard, vomito. Nel marasma, seguo il mio istinto e trovo in fretta il negozio. Compro una bottiglia di Rum Bacardi invecchiato 5 anni. Chiedo una forbice robusta. Faccio saltare il tappo-dosatore sotto gli occhi divertiti del commesso. «Ora posso pagarla», dico. «14 euro», dice. «Cazzo», dico. «Eh, amico, a San Fermin è così», dice. E ride.


Torno da Etxia. Il suo piano ha subìto una variazione. Ora le pollastrelle sembrano un obiettivo sfocato: è seduto sul marciapiede con le gambe rannicchiate sul petto, in anchilosato diapason. Sono i giovanotti spagnoli a passargli da bere. Meglio così, penso. Ma non ha più lo smalto di prima. Appena mi vede sorride. Si alza a fatica e, mezzo barcollante.

«Cristo, amico, non hai per niente una bella cera», gli dico.

Mi fa sì con la testa e mi sposta in disparte. Dice che deve vomitare. E sparisce in un vicolo lasciandomi in quel languido trionfo di carni accaldate, in balia di lascive spagnole e musiche calienti. Ricompare verso le cinque, un paio di ore dopo, di nuovo col sorriso acceso. «Dammi un goccio di rum».

«Ecco. Vacci piano, poi si corre», replico.

«Sei scemo?».

«Tu che dici?».

«Che sei scemo lo so. Intendevo per la corsa».

«Beh, allora sono scemo due volte perché io ho intenzione di correre. E con questi stivali ai piedi. Passo e chiudo».


Quando, verso le sette, cerchiamo un buco alla barrera sulla curva a gomito tra le strade Mercaderes e Estafeta, chiedo a Etxia di tenermi la bottiglia di rum. Meglio, quello che rimane. «Perché?». «Io corro». «Non fare cazzate». Conversazione interrotta. Ci distanziamo; ognuno cerca la postazione migliore. Con gli idranti, gli inservienti puliscono la strada dai pezzi di vetro delle bottiglie rotte. Nel contempo la rendono viscida. Va detto: le barreras sono due. Tra una e l'altra c'è un piccolo corridoio per gli infermieri. Inoltre: se qualcuno che corre in strada comincia a farsela sotto può saltare fuori senza essere impedito dal pubblico trasbordante.



Pochi minuti alle otto.

Un botto.

La via è invasa di persone pronte all'encierro. Uomini, giovani, vecchi, donne. Qualcuno fa stretching, altri si scaldano i muscoli, provano scatti brevi come sportivi pronti ad una gara. Che cazzo, siamo a Pamplona, mica alle Olimpiadi. Un altro botto e la gente corre. La pietra del lastricato inizia a tremare come ci fosse il terremoto. Terremoto forte. Se mi concentro comincio ad avvertire, tra urla e tumulti, il ritmico trepestio dei tori. Ci siamo. Salto sulla barrera, schizzo sulla seconda e mi passano sotto i tori. Salto giù, in strada e inizio a correre appresso agli ultimi che sono passati. Un toro e tre manzi. Un'iniezione di adrenalina. Se si girano, sono lì. Duecento metri, ecco l'arena. I tori incanalati nell'ingresso da un imbuto di uomini immobili, accalcati uno sull'altro.

Stravolto, mi fermo. Torno verso il punto dove ho lasciato Etxia, ma lo vedo arrivare, in strada. «Bello eh?», mi fa. «Già. Meglio andare a dormire. Oggi pomeriggio torea El July».

Foto di "San Fermin Pamplona" da Pexels

È ben vero che la corrida è uno spettacolo da non mancare, ma nemmeno per quella sono disposto a subire una evidente fregatura. Così dico subito a Etxia che non intendo scucire più di 20 euro per un biglietto che ne valga 15 o 17. Naturalmente, riuscire nell'impresa è speranza ardua.

Alle quattro e mezza siamo davanti all'arena. Un piazzale coperto da alte piante di platano pieno di bugigattoli da souvenir e bagarini che spacciano biglietti per la corrida. Al botteghino sono finiti, loro ne hanno a bizzeffe. Sono 20 o 30, a trafficare. I ticket da 17 euro ce li propongono a 50.

Che io sia maledetto se te lo compero, bagarino del cazzo.

Proviamo ad aspettare. Magari con l'avvicinarsi dell'inizio della corrida, i prezzi calano.

Campa cavallo che l'erba cresce.

D'altra parte, la contrattazione è pittoresca. Questi derelitti umani dall'alito alcolico e ogni rogna addosso urlano, piangono, si dannano, si arrabbiano. Prefiche ad un funerale; eppure non mollano di un euro, i maledetti.

Le leggi di mercato le conoscono bene e a governarle sono strampalate comparse che - senza far fila - riescono sempre ad accaparrarsi tagliandi d'ingresso a pacchi. La polizia vede, altroché. Ma fa finta di niente.

Uno gira mostrando il prezzo scritto sul display del telefonino.

Capito: non arriveremo mai ad avere i biglietti ad una cifra accettabile (preferiscono tenerseli, che venderli al prezzo ufficiale). Allora Etxia si diverte a provocare i bagarini con proposte che loro giudicano irriverenti (e in realtà lo sono). Chiede due ticket a 10 euro, quando gli erano stati proposti a 45 l'uno. Uno urla e ci insulta; un altro se ne va e basta. Uno pensa di aver capito male e invita Etxia a scrivere la sua offerta su un pezzo di carta. Quando vede 10 euro, ci indica un cinematografo, cento metri in là.

Aspettando che maturino i tempi, assistiamo nel piazzale antistante alla parodia di una corrida messa in scena da un gruppo di animalisti che mimano faenas e le rendono volontariamente grottesche. Sfiniti da giorni di calca, caldo e libagioni, il divertimento termina in fretta.



E siccome mezz'ora dopo l'inizio della corrida i prezzi sono ancora esorbitanti, decidiamo di rinunciare. Meglio un paio di Anis de toro mentre attendiamo degli amici che saluteremo in serata prima di lasciare Pamplona.


La sera, ritrovati tutti, ci sediamo all'Iruña, alla Hemingway. Beviamo qualche birra e parliamo. «Osasuna». Poi saliamo ai piani superiori di uno dei locali della piazza. Sopra: balere per chi ama ballare il liscio. Mi ero sempre chiesto dove fossero quelli che non cercano "la locura", come dice la signora Pilar. Il casino da matti, si potrebbe tradurre. Sono quassù e vista così, la città è stranamente rilassante.


Stiamo ancora un po'. È calmo da qui. Si beve e si parla, tranquilli. Poi, verso l'una ci lasciamo. Loro, i nostri amici, sono appena arrivati e dunque belli carichi, pronti ad assistere all'encierro del giorno successivo e tuffarsi nella fiesta.


Etxia ed io siamo sfiniti.

Eppure nemmeno il pensiero di poterci riposare un po' lontani dal caos ci toglie quella tristezza che sempre assale quando lasci una bolgia totalizzante. Quando devi andartene, sembra che ti manchi qualche cosa e capisci che, nonostante tutto, quelle giornate vissute così intensamente ti hanno comunque riempito. Esperienze, persone conosciute, ritmi esasperati: tutto fa parte di un pezzo di vita che sai essere stato irripetibile. A tornarci spesso è ancora più evidente: mai due situazioni si ripetono nello stesso modo, anche se la ritualità degli eventi programmati - preparativi, chupinazo, encierro - parrebbe suggerire il contrario. È un pezzo di vita che se ne va, tocca prenderne atto.

Addio Pamplona. Ma è un addio che gonfia il cuore fino a farlo lacrimare.


(FINE - luglio 2003)



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