Pamplona, Viva San Firmin! (12/7/2003)
- Maurilio Barozzi

- 31 lug 2003
- Tempo di lettura: 20 min
Aggiornamento: 7 lug
Dal 6 al 14 luglio la festa di San Firmin richiama a Pamplona migliaia di turisti attratti sulle orme di Hemingway, che vi ambientò il romanzo "Fiesta". Tutti lì per per l'encierro, la corsa di uomini e tori per le vie cittadine. Ma anche una festa che ha radici lontanissime e che dal 1591 riunisce a luglio le celebrazioni del patrono cittadino con la Feria del toro.
Il reportage di un aficionado.

PAMPLONA, Spagna (luglio 2003) – Pamplona è un naufragio. Ci arrivi con "Fiesta" sotto il braccio e l'aria da letterato; la lasci coi vestiti sudici e lo sguardo vacuo da alcolizzato. Mi disse così un vecchio farabutto che conosco da una vita, un amante della fiesta di San Fermin de Pamplona, dei tori, delle corride e - soprattutto - del rum. Dopo che ci sono stato sei volte, ho capito che, nonostante sia stata formulata da un autentico figlio di puttana, quella definizione è una verità. Sacrosanta.
Un tale mi ha scritto che nel mio reportage del '98 avrebbe letto volentieri anche la descrizione della città. Amico, parliamoci chiaro: se sei a Pamplona nei giorni di San Fermin è perché adori "Fiesta" di Hemingway. Sai che qui si beve, si vedono le corride, si corre coi tori sulle strade di pietra viscida, non si dorme, ci si spruzza addosso il vino, si beve ancora e, quando non se ne può più, si scappa. Se, nei paraggi, cerchi una bella città, belle chiese, pinacoteche e musei, vai a Saragozza, Burgos, al limite anche Logroño. Vuoi una bella spiaggia? C'è San Sebastian. Ma se vuoi questo, Pamplona non fa per te.
Comunque, la descrizione.
Domina una piana circondata dai monti di Navarra, Spagna del Nord, tra i fiumi Arga e Sadar. Ha un clima del cazzo che ricorda quello delle mie zone – nord Italia -, caldo umido d'estate, aria gelida d'inverno. Nel centro storico: chiassuoli stretti e calli in pavé levigato dai passi; le pareti delle case quasi tutte di un marroncino chiaro, color niente, molte scrostate; tapparelle e imposte stan su per miracolo.

Se hai l'opportunità di sporgerti su un tetto, vedi tegole alla rinfusa, un proliferare selvaggio di antenne e la comparsa di rialzi (col mattone ancora a vista) o di verande-mansarda inventate alla bisogna: quasi quasi gli ultimi piani degli edifici cadenti e occupati abusivamente a l'Avana. In più, in giro si respira un asfissiante sentore di Opus dei che mette le mani su tutto quello che può: università, uffici, cariche pubbliche. Insomma, detta così, niente di che. Qui devi venirci a San Fermin. Punto. Il fatto è che se ci vieni, poi non ne farai più a meno. Dopo questa descrizione, suona strano, no? Eppure..

Dunque, Pamplona. Ci torno con un amico – e collega -, Stefano, che per l'occasione si fa chiamare da tutti Esteban. Nella tarda mattinata del cinque luglio arriviamo in auto scivolando giù dai Pirenei. I finestrini abbassati inalano profumo di pino e aria fresca che fa frusciare le pagine del romanzo di Hemingway "Fiesta", aperto sul sedile dietro.
Distese di prati ingialliti e vacche, lungo la strada da Roncisvalle. Poi, di colpo, spunta la cintura urbana di Pamplona. Eccoci.
Per l'entrata in centro, voglio spararmi una musica acconcia. Esteban è perplesso: faccio pompare la "Marcia trionfale" dell'Aida a tutta manetta dall’autoradio. Fa un po’ tamarri ma chissenefrega, domani comincia la battaglia: vieni, o guerriero vindice.
In città è tutto pronto per San Firmin, la festa del patrono: vie coperte di bandierine di fronte all'arena; staccionate pronte a essere innestate per la corse dei tori; turisti che trascinano valige e disperatamente cercano una stanza… Tutto come sempre. Tranne Plaza del Castillo. Quella è diversa, completamente assolata e bianca, con le acacie di Costantinopoli e i platani che la ombreggiavano tagliati e passata da una gettata di cemento e calce. Cristo!, ma che diavolo hanno fatto?
Una ragazza che lavora in un bar dichiaratamente lesbico nel quartiere euskero, cioè basco, e indossa una maglietta attillata con la scritta MARITRINI, spiega: la sindaca Yolanda Barcina ha ordinato di segare gli alberi per fare un parcheggio. Li hanno mozzati di nascosto, nottetempo. La barista è incazzata nera. Annuncia che stasera è in programma una manifestazione di protesta. Mi chiede se ci sarò anch'io al loro fianco. Le dico: «Una cerveza, por favor». Esteban domanda cosa sia quel MARITRINI che ha sulla t-shirt. Lei spiega che Maritrini è una cantante «mucho, mucho caliente. Lesbian». Ma vah?, sai che non l'avrei detto, cara la mia Saffo?
Mentre ci spilla le birre, Esteban promette che ci saremo anche noi, stasera, in piazza contro la sindaca che ha fatto mozzare gli alberi. Lei mi guarda. Mi tocca dire: «Ok, ci sarò anch'io». Porca puttana, io avevo in mente altro, che partecipare ad una manifestazione politica. Pffffhh, Esteban è così. Prima di andarcene, sia lei che le sue amiche ci baciano sulle guance: ormai ci considerano compagni di lotta.
Sotto il sole giaguaro che riverbera la pietra, in mezzo al viavai che ormai è frenetico in vista dell’inizio della festa, domani a mezzogiorno in punto, setacciamo la città torrida a caccia di una sistemazione. Tempo perso. Cento euro a testa. Qualcuno si abbassa un po': centoventi per due. Uno arriva pure a 90 euro in due. Ma la stanza è un buco. Fanculo, la solita storia, tutti gli anni: alberghi e pensione scoppiano di turisti.
Così, per tentare la sorte, riprendiamo la macchina e ce ne usciamo dalla città, direzione Roncisvalle. Proviamo a cercare un ricovero qua e là, nei paesini, finché a Larrasoaña, una quindicina di chilometri a est, la fortuna che non ti aspetti: i proprietari di un villino che offrono alloggio ai pellegrini sulla via di Santiago de Compostela.
La stanza, una camera con bagno a parte ampio e luminoso, costa 16 euro a zucca. Sotto c'è un bel giardino dove il dirimpettaio ha costruito la piscina. Ventura e Pilar, si chiamano così i due anziani coniugi che ci ospitano, ci danno le chiavi, ci dicono di fare come a casa nostra. Il vicino, un quarantenne con un paio di pargoletti che si porta in giro per mano, appena vede che scarichiamo i bagagli, si ferma a sparare due puttanate. Dice che si chiama Juan, che domani anche lui scenderà a Pamplona, che tutto sarà chiuso per la Fiesta e nessuno lavora. «Chi non ha lasciato la città per evitare la cagnara se ne sta a bere vino, birra e calimocho», spiega. E mima col pollice alla bocca, nel caso non avessimo capito. Il calimocho è porcheria: cocacola e vino mischiati. Fa venire la cagarella, ma qui, soprattutto i giovani, ne vanno matti. Ah, se vogliamo – aggiunge Juan – possiamo fare il bagno nella sua piscina. Ecchecazzo, altroché se ce lo facciamo un bel tuffo nella tua splendida piscina. Abbiamo anche il costume!
Dopo un bell’ammollo, faccio una doccia e mi rado. Poi nel tardo pomeriggio con Esteban riprendiamo la macchina e filiamo giù, di nuovo verso Pamplona. Il sole è ormai una palla rosso fuoco e conferisce un aspetto poetico anche alla striscia d'asfalto sfatto che fende i pascoli in fase di viraggio. Viste adesso, le pietre delle case di Pamplona sono dorate. La luce morbida avvolge tutto in colori vibranti: una tonalità senza ombre dure che, anche da distante, fa risaltare particolari insospettati alla mercé del chiaroscuro violento di mezzogiorno. La città sembra davvero adagiata e rilassata, nel tenue bagliore del crepuscolo. Persino bella.
Parcheggiamo e torniamo nel quartiere euskero. Trabocca di turisti: giovani, anziani donne, uomini, ricchi, poveri, scappati di casa, squatter, tossici, beoni e, naturalmente, curiosi d’ogni foggia.
Un paradiso sognante, ovattato dall'alcol e dall’hashish. Mi muovo meglio sull'alcol. La birra costa poco. Nei supermercati, che da oggi fino al 14 luglio staranno aperti 24 ore, un litro di birra San Miguel costa 0,80 euro. Ce ne compriamo un paio di bottiglie e beviamo seduti per terra vicino a un gruppo di hippy che si passano una canna. Esteban smania, glielo leggo negli occhi. Poi lo dice chiaro, mescendo il tutto con una certa filosofia sulle esperienze da fare, la conoscenza, i mondi paralleli e tutto un filotto di vaccate.
«Dovevi venire fino a Pamplona per metterti a far prediche?», gli dico.
Mi guarda e fa: «Vado predicando. Embè?».
A quel punto cosa puoi ribattere?
Alle undici è buio strafatto. Come ci aveva annunciato la Maritrini, inizia la manifestazione contro il sindaco. Pardon, LA sindaca.
Tutti iniziano a fischiare senza ritmo. Battono con legni contro i cassonetti; scuotono e picchiano le inferriate dei negozi. Due corrono con una sirena in mano. La fanno ululare collegandola alla corrente dei bar. Si spostano di continuo: un minuto qua, poi filano di là, poi in un altro posto ancora…
Lo dico: quella sirena mi scassa la minchia. Assieme allo sferragliare dei cancelli e al rimbombo dei bidoni, evapora anche odore di piscio. Fa caldo, sudo, ho la camicia fradicia sulla schiena e sotto le ascelle. Situazione insopportabile.
Lì a fianco vedo il bar Etxia e decido di entrare a bere in santa pace.
Oddio, in santa pace… È strapieno anche dentro ma almeno le sirene sono un po’ attutite. Chiedo della birra in spagnolo castigliano e il tipo che serve finge di non capirmi. Vorrebbe solo clienti che parlano euskera, la lingua basca. E chi cazzo sa come si dice birra in euskera?
Paziento.
Richiedo la cerveja.
Niente.
Allora mi va il sangue alla testa.
«Hijo de puta, vediamo se questo, in castigliano, lo capisci, eh? E questo, in italiano, brutto rincoglionito… Ma guardati, con quella faccia da idiota che cazzo di rivoluzione vuoi fare, eh? Spini birre a chi ti paga tutto l'anno, muto come un pesce, ecco la tua rivoluzione: servo! E oggi, perché in questa topaia ti entrano due persone più del solito ti permetti anche di fare l’autonomista? Ma vaffanculo. RIVOLUZIONARIO-DEI-MIEI-COGLIONI. Non sai neanche chi sia, tu, il dottor Ernesto Che Guevara. Puah».
Esteban mi salva portandomi via, mentre il barista accenna un sorriso come dire che ha capito, ma che continua a far finta di non capire. Non so come spiegare, queste cose mi mandano in bestia.
Con la sua solita flemma, Esteban dice che il barista ha ragione, che l’euskera è la sua lingua, è antica, che non deve annacquare le origini e tutte quelle cazzate lì. Ovvio che non è il momento di farmi un pistolotto, questo. Per di più l’alcol e il caldo cominciano a picchiare in testa: «Razza di traditore, stai con lui adesso? Altro che Esteban, d'ora in poi ti chiamerò Etxia, come il bar. Così non mi scordo il nome». Ma lui è contento uguale, adora queste cose che sanno di rivoluzione. Anche se alla fine siamo rimasti a becco asciutto. Molliamo tutto e torniamo a casa per riposarci un po’, in vista della Fiesta. Che, udite udite, non è ancora cominciata.
A Larrasoaña è fresco e silenzioso: sembra impossibile che a soli quindici chilometri ci sia un delirio infernale. Ci sediamo in veranda osservando i boschi bui. I signori Ventura e Pilar ci offrono un bicchierino di Pacharán, il liquore ai prugnoli tipico navarro. Dicono «Osasuna», che sta per «Salute», ma è anche la squadra di calcio di Pamplona. «Osasuna». E bevo.

Eccoci qui: è il sei di luglio. Il giorno del Chupinazo, l'inizio della festa. È anche il giorno degli aumenti. Per quella bottiglia di birra che fino ieri sera costava 0,80, adesso anche nei supermarket ti sifonano 2 euro. Non c'è angolo in cui rifugiarsi dalla folla che canta, balla, beve dagli otri di cuoio. Impastoiati nella calca, come in autobus all'ora di punta, non ci si muove lungo la strada, non si riesce ad entrare nei bar.
A mezzogiorno in punto l’esplosione di un razzo decreta il via della festa e tutti – vestiti di bianco con foulard e fusciacca rossi – stappano bottiglie, spruzzano vino, tirano uova e panini, si spiaccicano schiuma da barba e pastelle d'uovo sui capelli, bevono a canna e si sbrodolano la maglia, i pantaloni. Poi, in marcia.
Lungo le vie del centro la bolgia sembra un corpo unico, magmatico, bianco e rosso, che si muove lento, ma si muove. Tocca seguire. Giù da Plaza de l'Ayuntamiento, verso Plaza Castillo e Paseo Sarasate. Dunque di nuovo dentro, lungo le vie del centro storico ormai consacrate a cimitero della bottiglia rotta. Io me ne sbatto visto che calzo gli stivali, certo però che se uno arriva lì con le infradito...

Con Etxia (il nervoso di ieri mi è passato, ma il nome gli resta!) seguiamo il serpentone – tutti ubriachi – e le varie bande che suonano musiche di ogni tipo. Anche noi beviamo birra.
«Come mai hai ancora la maglietta così bianca?», mi chiede una ragazzina. E intanto mi spruzza il vino da un otre di pelle.
«Era bianca», preciso.
Lei ride. Pare aver colto il mio puntiglio. Ma continua a spruzzare.
Etxia si sta facendo inondare da tutti la sua splendida t-shirt con la scritta Maritrini (appena ho girato l'occhio, ieri, se ne è fatto vendere una dalla Saffo del bar). Ora è più rossa che bianca. «La terrò sempre così, senza lavarla. Per ricordo», dice mentre imbocca una porticina anonima che ci fa finire in un centro sociale. Pare aver la calamita per ‘sti luoghi. Sbuchiamo in un grande cortile interno. La birra costa un euro e c'è un esplicito cartello: fuori gli sbirri.
Etxia è un angioletto al settimo cielo. Brama bagni d'umiltà. Sembra volersi riscattare dal destino che - guarda un po’ la sfiga - gli ha assegnato una famiglia benestante. Cerca storie. Avventure che lo liberino temporaneamente dalla routine. Cerca locali brutti, topaie. Vuole vivere da povero.
«Sai – gli dico –, tu ignori, o fingi di ignorare, un dato semplice-semplice: non sei povero. È inutile che ti danni l'anima per dare di te stesso un'idea diversa. Anzi, vuoi sentirne una? Questa tua presa di posizione, se dovessero saltare fuori le tue origini, diventerebbe addirittura irritante, per i veri poveri. Perché, vedi, la povertà non è una scelta. Soprattutto per chi la vive 24 ore al giorno. Io, piuttosto, devo convivere con le mie umili origini. Anzi, offrimi una birra».
«Ma vaffanculo, vah!».

L’encierro, che letteralmente significa l’atto di rinchiudere, è la prerogativa di San Fermin. Dalla Cuesta Santo Domingo, ogni mattina dal sette al quattordici luglio, sei tori con svariati manzi vengono liberati per la via Santo Domingo che, lungo la Mercadores e l’Estafeta perimetrate da barreras (staccionate semovibili), devono raggiungere la Plaza de Toros. Sono 848 metri percorsi all’impazzata dalle bestie assieme a migliaia di uomini che decidono di correre con loro, “accompagnandole” all’arena. Dal 1922, quando hanno costruito la Monumental de Pamplona, l’attuale Plaza de Toros, il tragitto è sempre lo stesso. Cambia solo l’orario: Hemingway in “Fiesta” parlava delle sei del mattino. James Michener, giunto qui sulle sue orme, in “Il mondo è la mia casa” annota le sette. Da quando ci vengo io - dal 1998 - si corre alle otto. Tuttavia, tale dilazione oraria non è stata sufficiente per consentirci di assistere al primo encierro dell’anno. Il Chupinazo di ieri è stato pesante e così ci siamo alzati troppo tardi e abbondantemente rincoglioniti. Dunque con Etxia decidiamo di rimanere a Larrasoaña, nel giardino di Ventura e Pilar a prendere il sole, leggere un po', fare bagni nella piscina del vicino che anche oggi è a Pamplona con moglie e bambini, lasciandoci il permesso per la piscina. Mi piace quel tipo.
La signora Pilar ogni tanto sbuca sul balcone e ci fa segno di aver preparato qualche cosa: una volta prosciutto e melone; un'altra volta insalata con la maionese. C'è sempre qualche birra ghiacciata. Cazzo, quasi quasi mi trasferisco.
In casa trovo una brochure sui Sanfermines che racconta le origini dell’encierro. In origine, parliamo del 1591, quando la festa taurina fu anticipata da ottobre a luglio facendola coincidere con quella del patrono, l’encierro non faceva parte del rituale. Era il sistema per portare i tori dalle porte della città fino all’arena, dove avrebbero combattuto nel pomeriggio. Col tempo poi è diventato il denotante della festa e, come tale, fu approvato nel 1876. Il tragitto misura esattamente 848,6 metri e la velocità media di percorrenza è di 3 minuti e 55 secondi. I tori corrono a 24 km all’ora e i due encierros più tragici furono quelli del 10 luglio 1947 e del 13 luglio del 1980 quando i tori Semillero e Antioquio uccisero rispettivamente due ragazzi. L’encierro più lento fu invece quello dell’11 luglio 1959: durò 30 minuti e gli organizzatori dovettero introdurre un cane perché mordesse il toro renitente, un miura, convincendolo a raggiungere la Plaza de Toros.

Dopo una giornata di recupero, la sera stiamo in veranda coi vecchi: chiacchierata rilassante a base di Pacharán. Mano a mano che beve, Ventura alza il volume della voce. Comincia raccontando del freddo che d'inverno si patisce, da queste parti. Dice di un pellegrino brasiliano diretto a Santiago de Compostela: disperso a novembre, fu ritrovato a marzo completamente congelato sui monti qui sopra. E, ridendo, indica con il braccio un punto lì davanti, nel buio. Ride anche Pilar, sottolineando che Ventura ha una comicità macabra. Lui ripete due volte la storia, insistendo molto sul fatto che - quando lo ritrovarono - il brasiliano aveva congelata sul viso un'espressione ebete, come se ridesse. Ovvio, era ibernato. Ma evito di farglielo presente.
Invece, domando a Ventura e Pilar dell'Eta. All'inizio stentano un po'. Espongono solo versioni ufficiali. Dicono: «L’Eta sbaglia a comportarsi così. Sbaglia a fare attentati. Sbaglia a uccidere». E giù Pacharán. Piano piano cominciano a proclamare che «la lingua euskera è molto, molto più antica del castigliano». Pacharán. Ventura molla gli ormeggi: «Aznar - che lui chiama "El da el bigote", "Quello coi baffi" - sta facendo danni enormi e limita l'autonomia basca». Pacharán. Sostiene che negli ultimi vent'anni anche a Pamplona è aumentato il numero di chi parla euskera (da 1% a 22%). «Eppure - precisa - Pamplona è Navarra, non c'entra molto con le province Basche». Le cita segnandole con le dita: Guipuzcoa, Euskadi e Alava. Sia Ventura che Pilar sono di Bilbao e, Pacharán su Pacharán, salta fuori la loro natura basca. Oh, la!, così mi piace. Ventura: «L’omicidio di Carrero Blanco, il 20 dicembre 1973, è stata una cosa inevitabile, finanche giusta, tra quelle fatte dall'Eta». Pacharán. «"El da el bigote" non rispetta lo statuto di Guernica sulle minoranze basche, vidimato nel 1980». Ormai è notte piena. Tutto nero come il carbone, e non passa un'automobile a morire. Se smettiamo di parlare, si sente il frinire delle cicale. Nient'altro. Ci dicono che quando erano giovani, appena arrivati ad abitare lì, spesso passava una pattuglia della polizia per tenerli d'occhio. E ogni tanto succede ancora oggi, sebbene con meno frequenza.

Cambiamo traiettoria. Puntiamo i nostri flussi cerebrali su un'altra faccenda: l'Opus Dei. «A Pamplona controlla tutto» sentenzia Ventura. Pilar annuisce. Dice di Escrivá de Balaguer, il fondatore. Sarebbe arrivato lì da Saragozza. Racconta del dominio Opus Dei su università (lui ha mandato il figlio a studiare a Madrid, proprio per sottrarlo a questo giogo) e mondo del lavoro. Pilar perfeziona le secche frasi di Ventura, le specifica, ma vanno d'accordo su ogni argomento.
Verso l'una e mezza Ventura beve l'ultimo. Si va a dormire. Domattina c'è il secondo encierro della Fiesta. Ci dà appuntamento alle otto precise, in salotto. Ventura dice che l'encierro si vede molto meglio alla tivù. «E non si rischia di essere incornati», aggiunge. Faccio notare che anche eminenti personalità corrono l'encierro. «Lo scrittore Michener o Manuel Patarroyo, quello che ha scoperto il vaccino della malaria, per dirne un paio». Ventura alza le spalle e allarga un poco le braccia senza voltarsi mentre s'incammina verso la sua stanza.

Alle otto meno due minuti scendiamo dalla camera. Ci aspettano Pilar e la colazione. Ventura non c'è. La signora dice che suo marito resta a vedere l'encierro in camera. Etxia non l'ha mai visto, l'encierro. Vorrebbe sapere qualche cosa di più. Ma non c'è tempo per spiegare. Stanno inquadrando i tori, sei animali con attorno un po' di manzi che dovrebbero accompagnarli per le strade di Pamplona in mezzo a migliaia di persone che corrono con loro.
Esplode un razzo. I tori sono liberi. Si capisce subito che non sarà tranquillo, questo encierro. I tori non restano uniti. Si disperdono. Entrano alla rinfusa in mezzo al fiume di folla in corsa. Quando si disuniscono sono pericolosi, difficili da controllare. Ne tieni d'occhio uno e perdi di vista gli altri. A gettare uno sguardo distratto, gli animali sono dieci, o quindici. Ma quelli da temere, correndo in strada, sono i sei tori. Quelli incornano, i castrati no. Ora basta chiacchiere.
Alla rinfusa, impazziti con le bave alla bocca, gli animali corrono furiosi lungo le strade transennate. Qualcuno perde l'equilibrio, scivola a terra. Bestioni da 500 chili che schizzano come saponette sull'acciottolato. Meglio non essere in traiettoria. Un toro è fermo. Ringhia rabbia. Si gira di scatto e incorna un uomo, un vecchio, che finisce a terra. Il toro lo incorna ancora, e ancora. L'uomo è inerte, si direbbe un manichino, ma c'è sangue che cola sui pantaloni strappati dalle cornate. Due o tre coraggiosi cercano di distogliere l'animale dal suo gioco; lo tirano per la coda; uno usa il giornale arrotolato per colpirlo sul dorso e poi scappare. Finalmente il toro si scansa e riparte verso l'arena. L'uomo resta disteso sulla strada. Infermieri in giacca arancione saltano le barreras di legno massiccio dove sono arrampicate migliaia di persone. Portano le prime cure al ferito. Lui ricomincia a muoversi. Poi, da dietro, compre l'ambulanza. Mentre lo caricano, il ferito alza il capo. Saluta una telecamera che è lì per inquadrarlo. Sembra contento, soddisfatto delle sue punteruolate. Avrà almeno settant'anni.
Ventura sbuca fuori dalla sua stanza ridacchiando. Ricorda la faccia dell'incornato e lo sfotte. Ribadisce che l'encierro è meglio guardarlo alla tivù.
«Ehi reporter, domani andiamo sul posto», dico a Etxia, impermeabile alla tesi di Ventura.
«Sicuro».
Per la cronaca, il giornale del giorno successivo riporta: il ferito, tal Al Gleen Chesson, è americano e ha 57 anni. Ha combattuto in Vietnam e corre encierri dal 1981. In questo periodo stava anche preparando una gara di maratona. Tre cornate nella gamba destra. Nove punti di sutura sulla fronte. Un occhio pesto. Ecco il bilancio della sua impavida sfida col cornuto "cebada gago" chiamato Hormigón. Per un po' Al Gleen la maratona se la scorda...

Torniamo a noi. Quella sera Etxia ed io usciamo a mezzanotte. Se si vuole essere in strada, all’encierro del mattino ci si deve preparare con un dritto, niente letto. Ci accompagna una bottiglia di Martini rosso. Mi sta perfettamente nella tasca davanti dei jeans.
Tutti i locali sparano musica a pallettoni, dura prova per l'umano apparato fonoassorbente. Gente dappertutto. Una luce tagliente marca le ombre e illividisce le espressioni. In ogni piazza ci sono discoteche improvvisate dove si balla al ritmo di musiche spagnoleggianti. Confesso: mi fanno cagare. Ricky Martin, roba del genere. Strano, solitamente vanno i classici dance anni '70. Quest'anno, nisba. Ma siamo qui, a Pamplona. Tutti ridono, cantano, ballano ed Etxia è subito in forma. Muove il collo come un telescopio. Un paio di ganze gli entrano nel campo visivo. Sviluppa il suo piano. Per me fa acqua dappertutto, ma lui è convinto. Dunque. Sfruttando la bottiglia di Martini rosso che abbiamo, offre da bere ai maschietti assieme alle ragazze. Vuole farseli amici. E spera che poi - non ho ben capito secondo quale principio - gliele presentino. Naturalmente quelli bevono (il MIO Martini), ma non presentano nessuno. Del resto, solo un mentecatto presenterebbe la propria donna ad un altro, durante i sanfermines.
Lo lascio alle sue strategie da Rommel, con tanto di Martini, e mi avventuro nella giungla etilica a caccia di un supermercato. I ciottoli rettangolari dell'Estafeta sono coperti da sozzura d'ogni tipo: bottiglie, bicchieri di carta, foulard, vomito. Nel marasma, seguo il mio istinto e trovo in fretta il negozio. Compro una bottiglia di Rum Bacardi invecchiato 5 anni. Chiedo una forbice robusta. Faccio saltare il tappo-dosatore sotto gli occhi divertiti del commesso. «Ora posso pagarla», dico. «14 euro», dice. «Cazzo», dico. «Eh, amico, a San Fermin è così», dice. E ride.

Torno da Etxia. Il suo piano ha subìto una variazione. Ora le pollastrelle sembrano un obiettivo sfocato: è seduto sul marciapiede con le gambe rannicchiate sul petto. Sono i giovanotti spagnoli a passargli da bere. Meglio così, penso. Ma non ha più lo smalto di prima. Appena mi vede sorride. Si alza a fatica.
«Cristo, amico, non hai per niente una bella cera», gli dico.
Accenna un sì con la testa e mi sposta in disparte. Dice che deve vomitare. E, barcollante, sparisce in un vicolo lasciandomi in quel languido trionfo di carni accaldate, in balia di lascive spagnole e musiche calienti.
Ricompare un’ora dopo, di nuovo col sorriso acceso. «Dammi un goccio di rum».
Sembra rinato.
«Ecco. Vacci piano, poi si corre», replico.
«Sei scemo?», fa lui.
«Tu che dici?».
«Che sei scemo».
«Beh, allora sono scemo due volte perché io ho intenzione di correre. E con questi stivali ai piedi. Passo e chiudo».
Quando, verso l’alba, cerchiamo un buco alla barrera sulla curva a gomito tra la Mercaderes e l’Estafeta, chiedo a Etxia di tenermi la bottiglia di rum. Meglio, quello che rimane.
«Perché?».
«Io corro».
«Non fare cazzate».
«Tieni la bottiglia e basta». Conversazione interrotta.
Con gli idranti, gli inservienti puliscono la strada dai pezzi di vetro delle bottiglie rotte. Nel contempo la rendono viscida. Va detto: le barreras sono due. Tra una e l'altra c'è un piccolo corridoio per gli infermieri. Inoltre: se qualcuno che corre in strada comincia a farsela sotto può saltare fuori senza essere impedito dal pubblico trasbordante.

Pochi minuti al via.
Un botto.
La strada Santo Domingo è invasa di persone pronte all'encierro. Uomini, giovani, vecchi, donne. Qualcuno fa stretching, altri si scaldano i muscoli, provano scatti brevi come sportivi pronti ad una gara. Che cazzo, siamo a Pamplona, mica alle Olimpiadi. Un altro botto e la gente inizia a correre. La pietra del lastricato si mette a tremare come ci fosse il terremoto. Terremoto forte. Se mi concentro comincio ad avvertire, tra urla e tumulti, il trepestio dei tori. Ci siamo. Salto sulla barrera, schizzo sulla seconda e sono in strada. I tori passano con un mare di persone attorno che quasi nemmeno li vedo, non fosse per il cuore che mi esplode. Prendo a correre appresso agli ultimi: un toro e tre manzi. Un'iniezione di adrenalina. Se si girano, sono lì. Corro un po’ ma mi distanziano. Ormai è andata. Li seguo da lontano, fino all’imbocco dell'arena. I tori vi entrano incanalati nell'ingresso da un imbuto di uomini immobili, accalcati uno sull'altro.
Stravolto, mi fermo e torno verso il punto dove ho lasciato Etxia ma lo vedo arrivare, in strada.
«Bello eh?», mi fa.
«Già. Meglio andare a dormire. Oggi pomeriggio ci sono anche le corride da vedere: torea El July».

È ben vero che, durante la Feria di Pamplona, la corrida è uno spettacolo da non mancare. Tuttavia nemmeno per quella sono disposto a subire la solita fregatura turistica. Così dico subito a Etxia che non intendo scucire più di 20 euro per un biglietto che ne valga 15 o 17. Naturalmente, riuscire nell'impresa è speranza ardua.
Alle quattro del pomeriggio siamo davanti all’arena, Paseo Hemingway, un piazzale coperto da alte piante di platano pieno di bugigattoli da souvenir e bagarini che spacciano biglietti per la corrida. Al botteghino sono finiti, loro ne hanno a bizzeffe. Sono 20 o 30, a trafficare. I ticket da 17 euro ce li propongono a 50.
Che io sia maledetto se te lo compero, bagarino del cazzo.
Proviamo ad aspettare. Magari con l'avvicinarsi dell'inizio della corrida, i prezzi calano.
Campa cavallo che l'erba cresce.
D'altra parte, la contrattazione è pittoresca. Questi derelitti umani dall'alito alcolico e ogni rogna addosso urlano, piangono, si dannano, si arrabbiano. Prefiche ad un funerale; eppure non calano di un euro, i maledetti. Le leggi di mercato le conoscono bene e a governarle sono strampalate comparse che - senza far fila - riescono sempre ad accaparrarsi tagliandi d'ingresso a pacchi. La polizia vede, altroché. Ma fa finta di niente.
Un bagarino gira mostrando il prezzo dei suoi biglietti scritto sul display del telefonino.
Capito: non arriveremo mai ad una cifra accettabile (preferiscono bruciarli, che venderli al prezzo ufficiale). Allora Etxia si diverte a provocare i venditori con proposte che loro giudicano irriverenti (e in realtà lo sono). Chiede due ticket a 10 euro, quando gli erano stati proposti a 45 l'uno. Uno urla e ci insulta; un altro se ne va e basta. Uno pensa di aver capito male e invita Etxia a scrivere la sua offerta su un pezzo di carta. Quando vede 10 euro, ci indica un cinematografo, cento metri avanti.
Aspettando che maturino i tempi, assistiamo nel piazzale antistante alla parodia di una corrida messa in scena da un gruppo di animalisti che mimano faenas e le rendono volontariamente grottesche.
Sfiniti da giorni di calca, caldo e libagioni, il divertimento termina in fretta.

Siccome mezz'ora dopo l'inizio della corrida i prezzi sono ancora esorbitanti, decidiamo di rinunciare. Meglio un paio di Anis de toro mentre attendiamo degli amici che saluteremo in serata prima di lasciare Pamplona.
La sera, ritrovati tutti, ci sediamo al Café Iruña, alla Hemingway. Beviamo qualche birra e parliamo. «Osasuna». Poi saliamo ai piani superiori di uno dei locali della piazza. Sopra: balere per chi ama ballare il liscio. Mi ero sempre chiesto dove fossero quelli che non cercano «la locura», come la signora Pilar chiama il casino da matti. Ecco dove sono: quassù.

Stiamo ancora un po'. È calmo da qui. Si beve e si parla, tranquilli. Poi, verso l'una ci lasciamo. Loro, i nostri amici, sono appena arrivati e dunque belli carichi, pronti ad assistere all'encierro del giorno successivo e tuffarsi nella fiesta.
Etxia ed io siamo sfiniti: in tanti anni mai sono resistito alla festa di Pamplona più di cinque giorni.
Eppure nemmeno il pensiero di poterci riposare un po' lontani dal caos ci toglie quella tristezza che sempre assale quando lasci una bolgia totalizzante. Quando devi andartene, sembra che ti manchi qualche cosa e capisci che, nonostante tutto, quelle giornate vissute così intensamente ti hanno comunque riempito. Esperienze, persone conosciute, ritmi esasperati: tutto fa parte di un pezzo di vita che sai essere stato irripetibile. A tornarci spesso è ancora più evidente: mai due situazioni si ripetono nello stesso modo, anche se la liturgia degli eventi programmati - preparativi, chupinazo, encierro, corride - parrebbe suggerire il contrario. È un pezzo di vita che se ne va, tocca prenderne atto. Ecco tutto.
Addio Pamplona. Ma è un addio che gonfia il cuore fino a farlo lacrimare.
(FINE - luglio 2003)











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