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Qui l'Italia non è sovrana e il tedesco non si tocca - Conversazione con Durnwalder 31/12/2010

Aggiornamento: 22 lug 2023


Mucche a riposo sulla spiaggia di Goa

Presidente Luis Durnwalder, nonostante i rapporti tra italofoni e germanofoni in Alto Adige Südtirol siano migliorati rispetto qualche anno fa, con regolarità irrompe sulla scena politica il dibattito sulla toponomastica. Recentemente è stato il caso dell’Alpenverein (Club alpino sudtirolese) a riaprire il capitolo apponendo esclusivamente in lingua tedesca gran parte dei cartelli che nominano i sentieri di montagna. E’ intervenuto anche il ministro Raffaele Fitto con cui avete firmato un accordo che prevede la nascita di una commissione paritetica Stato-Provincia di Bolzano che ha generato nuove polemiche(1). Insomma, la querelle è sempre in agguato.

«All’interno del mio partito, la Südtiroler Volkspartei (Svp), c’è una cospicua parte che dice ancora: “Via tutti i nomi in lingua italiana, perché anche questa è storia e dunque i nomi dei luoghi dovrebbero essere reinseriti nella loro origine tedesca”. Dall’altra parte c’è resistenza anche tra il gruppo italiano. Questi dicono: “Non importa se Tolomei ha fatto un buon lavoro o meno, lui ha trovato queste forme di traduzione e tali devono rimanere”. Anche se alcune sono semplicemente vergognose».

Ma lei, presidente Durnwalder, personalmente cosa pensa a riguardo?

«Io dico: non si deve pensare solo con il cuore, ma anche col cervello. Ora apparteniamo a questa Unione europea e dobbiamo essere a tutti gli effetti una regione trilingue. Perciò troviamo un compromesso».

Quale può essere questo compromesso?

«Le località grandi, come ad esempio città, paesi, comuni con entrambi i nomi, anche nei documenti ufficiali. Invece per ciò che nomina prati, malghe, gruppi di case e nomi propri deve restare la dicitura originale. Pensi che qualcuno ha tradotto il mio cognome Durnselva. Che sciocchezza, io mi chiamo Durnwalder! Credo però che con la buona volontà e ora con questo accordo che ho fatto con il ministro Fitto si vada più o meno in quella direzione».

Parla di direzione, non di soluzione.

«Le dico che qui passano ancora degli anni per una soluzione definitiva. Ora abbiamo presentato un disegno di legge sulla toponomastica, però so già che non passerà. Ci vuole ancora del tempo, ma prima o poi ci arriveremo. E la soluzione sarà proprio questa: i grandi luoghi con entrambi i nomi, quelli piccoli con l’originale. Non si può forzare la storia. Se mio padre ha detto: questo maso si chiama Überwalder, perché deve venire uno da Roma a dire come si chiama la mia proprietà, traducendola Valda di sopra?».

Presidente, dopo che nel 2001 sono state riconosciute esplicitamente anche a livello costituzionale le due Province a Statuto speciale, con la denominazione bilingue, qualcuno giudica esaurito il ruolo propulsivo della Svp.

«Molti pensano questo. Ci dicono: adesso che avete l’autonomia; adesso che avete la tutela internazionale con la quietanza liberatoria dovreste diventare un partito normale, ritenendo che non serva più compattezza tra gli elettori di lingua tedesca. Ma una minoranza deve continuare ad aver paura di essere assimilata, di non avere più la resistenza sufficiente per mantenere le proprie specificità, le particolarità, per ossigenare la propria cultura e lingua all’interno di un ambito molto vasto come è l’Italia. Perché l’Italia conta comunque sessanta milioni di abitanti: noi in Alto Adige Südtirol siamo in cinquecento mila e di questi i tre quarti di ceppo linguistico tedesco o ladino. Per esempio, se io fossi di Trento o di Milano, la mia cultura, la mia lingua, l’identità nazionale stessa non sarebbe mai in pericolo perché anche un ipotetico forte flusso migratorio non metterebbe ma in discussione l’equilibrio. Viceversa, se qui in Alto Adige arrivassero molti immigrati, ci possono essere dei problemi».

Può spiegare secondo lei che tipo di problemi potrebbero creare gli immigrati in Alto Adige Südtirol?

«Oggi gli immigrati che arrivano dall’estero, principalmente dall’Est Europa, sono 40 mila, circa l’8 per cento della popolazione. Se, ottemperando alla Proporzionale, decidessero tutti in blocco di fare parte del gruppo italiano, il nostro peso (dei germanofoni, ndr) diminuirebbe. E potrebbe innescare un processo che tende a indebolire la minoranza. Se non si parte da questo presupposto, non c’è tutela giuridica né garanzia che possa proteggere chi non ha ben chiaro l’obiettivo primario. E cioè quello di sopravvivere. E noi abbiamo dimostrato di voler sopravvivere. Dunque, tornando alla domanda di prima, per questo ritengo che la politica della Svp debba sempre avere come primo punto quello che valuta la nostra situazione all’interno della maggioranza italofona».

E’ questo il senso di un partito locale?

«Certo. E’ fondamentale che ci siano i partiti locali. Un partito nazionale non avrà mai come primo punto la protezione di una minoranza, nel caso della nostra, perché ha altri programmi. Non sente i problemi di sopravvivenza come li sentiamo noi. Per questo, come Svp, abbiamo sempre detto che non vogliamo partecipare al governo, indipendentemente dal fatto che poi magari decidiamo di appoggiarlo in base ai programmi».

Ciò non vi porterà ad un rapporto di perenne distinguo con i partiti di lingua italiana?

«Se noi avessimo un programma di tipo generale, potremmo trovare dei motivi di principio o di orientamento per allearci con altri. Ma, ripeto, siamo un partito di raccolta, al nostro interno trovano collocazione orientamenti diversi ma che si sintetizzano alla fine con l’obiettivo principale che è quello della nostra sopravvivenza. Purtroppo qui in Alto Adige molti partiti prendono le mosse dal presupposto dello Stato sovrano».

Voi invece? Non riconoscete la sovranità statale?

«Non possiamo parlare di Stato sovrano. Per noi sarebbe antistorico. Qui non abbiamo mai avuto uno Stato egemone. Qualcuno ci paragona alla Jugoslavia, ma è un paragone del tutto sbagliato. Lì una volta erano repubblica. Noi non siamo mai stati una repubblica.»

Ma qualcuno parla esplicitamente di aggregazione all’Austria.

«Non noi della Svp. Il Pacchetto va in un’altra direzione. E il Pacchetto è la base della nostra politica. Vogliamo essere protetti prendendo il Pacchetto come dato di fatto. Con tutto quanto comporta e cioè che, volendo o non volendo, noi apparteniamo allo Stato italiano. Il fatto stesso di continuare a ribadire la nostra autonomia già di per sé implica che noi apparteniamo ad una realtà diversa da noi. Questa è la nostra direzione politica».

Dunque oggi riconoscete un netto contrasto con i partiti che chiedono l’autodeterminazione?

«Certo. Se anche loro prendessero come base l’accordo di Parigi, interpretato poi dal Pacchetto, potremmo fare un partito unico, diviso al suo interno da delle correnti di destra, sinistra e centro. Ma non è così. E se questi continuano a parlare di Austria, dall’altra parte ci sono i Verdi. Che viceversa vogliono la mescolanza».

Che sarebbe la morte di questa logica…

«Esatto. Se una minoranza si mescola, per definizione sparisce. E questo è proprio il principio contrario al nostro primo punto programmatico».

Nel corso degli anni la Svp ha comunque cambiato in maniera radicale la sua strategia, parole d’ordine comprese, marcando una certa distanza dai tempi del los von Trient e lasciando il campo più estremista a Eva Klotz. Con emorragia di consensi compresa. Cosa ne pensa?

«Non è solo per questo che c’è perdita di voti, ci sono un’insieme di cose. Prima di tutto dobbiamo spiegare che questi partiti di opposizione vogliono solo sfruttare la situazione di vantaggio determinata dal Pacchetto. Bisogna sapere che noi nei primi anni Sessanta eravamo come l’Uganda. Non avevamo niente di niente. Solo con l’autonomia siamo diventati una provincia di altissimo livello dove la disoccupazione è ai minimi nazionali, il pil pro capite è uno dei più alti e la gente germanofona può partecipare alla vita culturale e politica. Ciò significa che abbiamo saputo mettere a frutto i benefici dell’autonomia. Ma va tenuto presente che tale autonomia è stata ottenuta tramite lunghissime e pazienti trattative con Roma, con l’appoggio dell’Austria. A cui hanno parzialmente partecipato anche coloro i quali ora sono all’opposizione. Che però adesso vorrebbero godere di tutti i vantaggi ottenuti e nello stesso tempo proseguire verso l’obiettivo dell’autodeterminazione».

Obiettivo che, in realtà, anche voi perseguivate.

«Certo. Nel 1946 non abbiamo chiesto l’autonomia. Avevamo chiesto l’autodeterminazione. Ma ora c’è solo qualche voce isolata all’interno del nostro partito che ne parla ancora. Ma i termini sono molto diversi»».

Cioè, quali sono i «vostri» termini dell’autodeterminazione?

«Queste voci dicono che bisogna mantenere sempre un obiettivo alto perché se Roma non ci concede quanto ha promesso, con trattative depositate anche all’Onu come risultato della vertenza tra Austria e Italia, allora si potrebbe dire, anche da parte nostra, che tali accordi non sono rispettati. In questo caso potremmo chiedere all’Austria di sciogliere il contratto e noi intraprendere questa via. Però, attenzione: senza l’autonomia. Noi siamo consapevoli di questo e anche chi paventa questi scenari all’interno della Svp li ipotizza come ultima ratio, nel caso in cui Roma non dovesse mantenere gli accordi».

Lei è a capo della Provincia di Bolzano dal 1989 ma fa politica dalla fine degli anni Sessanta: cosa le ha fatto cambiare idea?

«Guardi, io ero uno di quelli che aveva sempre detto los von Trient. Nel ’69 votai contro il Pacchetto e contro la sua chiusura perché ritenevo che non ci si potesse fidare né di Roma né di Trento. Oggi è cambiato tantissimo a livello di collaborazione».

Per esempio? Come è cambiata la collaborazione con Trento?

«Noi abbiamo detto: adesso che abbiamo la tutela dobbiamo anche collaborare, trovare amici e sostenitori della politica della montagna. E perciò, nel lavoro di tutti i giorni, abbiamo visto che la collaborazione con Trento è ottima. Allora volevamo chiuderci, mentre ora siamo una regione molto aperta verso l’Europa. Anche noi abbiamo capito che all’interno dell’Europa la nostra garanzia di sopravvivenza passa attraverso il rispetto dei patti di autonomia».

Quale ritiene essere, in questo quadro geopolitica, il ruolo dell’Alto Adige Südtirol?

«Possiamo dire che in Europa i confini sono di fatto spariti, sono solo un fatto formale. Abbiamo la moneta comune, abbiamo gli accordi di Schengen, e in questo scenario noi, come zona di confine, pensiamo di avere il compito di garantire un passaggio morbido da una cultura verso l’altra. Da una regione che appartiene a uno Stato ad un’altra regione che appartiene ad un altro Stato. Trento è provincia completamente italiana, Bolzano è una provincia italiana e tedesca, Innsbruck è un land completamente tedesco. Il nostro compito oggi, nel quadro europeo, è quello di collegare i due mondi italiano e tedesco».

In tal senso voi state cercando di attivare l’Euroregione del Tirolo attraverso il Gruppo europeo di cooperazione territoriale.

«Sì, anche se c’è da fare ancora parecchio prima di arrivare a risultati definitivi. Nel settore della ricerca, prima di tutto. Poi nel campo dell’apprendimento delle lingue grazie a un nuovo sistema scolastico e in settori come ambiente, parchi, energia. E poi dovremmo anche rendere il terreno fertile per le imprese che intendessero investire in queste aree, in entrambi i sensi. Vede, penso che noi conosciamo molto meglio i tedeschi rispetto a un italiano – anche se parla tedesco –, perché conosciamo la loro mentalità. Nello stesso tempo, conosciamo meglio gli italiani, le loro attitudini, rispetto a come le potrebbe conoscere un tedesco. Ecco, noi intendiamo giocare la nostra partita non chiudendoci, ma aprendoci ad una prospettiva di mediazione europea, ritagliandoci tale ruolo di collegamento».

Da una Euregio Tirolo che voleva essere omologa per lingua e cultura, dunque, ad una che invece – stando alle sue parole – non può prescindere dalla componente trentina e italiana . Un bel salto, no?

«Si deve capire che vent’anni fa con Trento non potevamo collaborare come lo facciamo ora. Perché anche Trento è cambiata. A causa dell’interpretazione sbagliata dell’accordo di Parigi, la Regione Trentino Alto Adige Südtirol ha ricevuto l’autonomia, ma il senso di quel patto era un altro. Era quello di dare autonomia dopo la Seconda guerra mondiale alle minoranze linguistiche d’Italia che altrimenti avrebbero optato per essere annesse all’Austria. Noi abbiamo sempre vissuto però l’istituzione regionale come qualche cosa di inutile: noi vogliamo l’autonomia non in una regione territoriale dove il gruppo linguistico italiano costituisce i due terzi. Perché in quella situazione non avremmo mai potuto difendere la nostra identità. Da qui il los von Trient. Dopo la chiusura del Pacchetto e il quasi svuotamento della Regione, abbiamo ricevuto la nostra autonomia provinciale»

E così è il Trentino ad essere più in difficoltà, ora, a mantenere il suo status speciale.

«Ci sono molti nemici dell’autonomia, a livello politico nazionale, che circondano il Trentino. Sono gelosi della loro bravura e dei loro successi, ottenuti tramite l’autonomia. Non comprendono come mai tale status debba essere concesso al Trentino. Così a Trento hanno cominciato a rendere manifeste le loro minoranze. Ricordo quando, fino a poco tempo fa, qualcuno a Trento diceva: “Io mi vergognerei di essere chiamato tirolese”. All’epoca, quando si parlava di mocheni, cimbri e ladini, qualcuno diceva: “Uh, per questi quattro gatti”. Ora invece in Trentino hanno capito che queste minoranze sono una ricchezza per loro, distinguendoli dagli altri. Altrimenti non si capirebbe perché anche Verona non possa avere l’autonomia speciale. Chiarito questo, hanno poi sostenuto che storicamente il Trentino ha guardato a nord. Dicono: “Abbiamo sempre diviso il nostro destino con l’Alto Adige e con l’Austria, abbiamo anche noi bisogno di una politica della montagna, del centro delle Alpi”. In tal modo si sono distinti creando il loro salvagente. Per questo i trentini si sono inseriti anche nel progetto Egregio Tirolo. Anzi, erano tra i primi a caldeggiarla. Ed hanno spinto molto su questa prospettiva. Lorenzo Dellai, presidente di Trento, ha capito subito che questa era la loro possibilità di differenziazione: la presenza delle minoranze, la storia comune con il Südtirol e l’orientamento geopolitico a nord. Di fronte a questo ragionamento anche noi sudtirolesi abbiamo cambiato atteggiamento, lasciando cadere molti screzi del passato. Abbiamo cominciato a pensare alle cose che ci accomunano e scelto di guardare in avanti».

Ma prima quali erano questi screzi?

«Fino a qualche tempo fa c’era solo la Regione e queste specificità trentine andavano ad annacquare le nostre. Oggi, invece è diverso. La nostra politica avviene non attraverso una scatola vuota, una gabbia, la Regione, ma tramite due realtà vive, e cioè le Province autonome. Trento e Bolzano. E anche Innsbruck. Questo spirito di collaborazione è, oggi, una cosa normale, di ogni giorno tra persone che la pensano allo stesso modo».

Lei ha chiamato la Regione una gabbia…

«Finché uno ha paura che i leoni o le volpi o gli orsi vogliano mangiarlo, tutti i rifugi sono buoni: anche una gabbia aiuta contro la paura. Ma quando cominci a vedere che il mondo fuori è sano, sicuro, allora apri la gabbia. Noi ora abbiamo capito che i trentini non vogliono “mangiarci”, e così abbiamo aperto la gabbia. Anche Roma ha chiarito che le minoranze sono “interesse nazionale” e perciò non dobbiamo più aver paura. Specialmente se alle enunciazioni seguono i fatti. Ecco perché ci siamo aperti, cercando alleati per avere più forza di contrattazione su Roma. Non solo: se, a livello nazionale, è un trentino a dire che vuole collaborare con l’Austria in virtù delle specificità regionali, ciò non suona così pericoloso come se lo dicessimo noi. Che faremmo resuscitare i vecchi pregiudizi sulla volontà di ricongiungerci all’Austria».

Dunque lei non crede sia più necessario smantellare totalmente la Regione Trentino Alto Adige Südtirol come sosteneva qualche anno fa?

«Io dico che la nostra Regione è totalmente superata perché la collaborazione di cui sto parlando la potremmo comunque fare allo stesso modo. Però io rispetto la Costituzione e visto che lì è prevista, i trentini la vogliono per avere formalizzato il collegamento con il Südtirol, non c’è problema. Certo, io ritengo tale collegamento artificiale, perché si deve sviluppare con i fatti di ogni giorno, non con un’istituzione inutile. Comunque non mi disturba: anche i trentini hanno capito che la Regione non è un ente pensante ma solo un meccanismo giuridico».

Lei disse che la Regione costa solo soldi. Ora ne è il presidente.

«Sì, certo. Ma se la questione sono i soldi, volendo si può economizzare. Pensi che il mio predecessore alla presidenza della Regione, Carlo Andreotti, aveva 18 persone all’interno del suo gabinetto. Io ho una segretaria part time. Lui percepiva uno stipendio, io non ricevo neanche un centesimo: si può risparmiare anche così. Quando sono arrivato c’erano 400 persone che lavoravano in Regione, ora sono circa 200. E contestualmente abbiamo assunto anche nuove competenze, come ad esempio il giudice di pace».

Mi permetta l’ultima domanda: crede che la proporzionale etnica possa essere considerata una misura temporanea di affirmative action?

«Per salvare la minoranza occorrono sempre alcuni pilastri. Primo: tutela delle propria cultura. Secondo: poter partecipare alla vita pubblica nelle decisioni e nella responsabilità. Terzo: possibilità di collegarsi con altre minoranze per rafforzarsi. Su questo territorio la lingua deve essere garantita e equiparata a quella nazionale. Per la partecipazione tutti devono averne diritto e mezzi: mai rinunciare al bilinguismo né alla proporzionale che automaticamente stabilisce il censimento per garantire i gruppi e stabilire le quote».

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NOTA:

1) Dopo una serie di rinvii, la commissione legislativa si è riunita ai primi di novembre e ha nuovamente rinviato la trattazione. L’obiettivo è quello di trovare un'intesa sulla base dei 3 ddl depositati in consiglio (Svp, Verdi, Klotz) prima di passare alla discussione. Se non ci sarà accordo sul testo, la destra italiana ha preannunciato ostruzionismo in aula.


Maurilio Barozzi in “LiMes. Rivista Italiana di Geopolitica” 3/2010 Lingua è potere. (Conversazione con Luis Durnwalder)


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