St. Patrick Day, un’altra occasione per ficcarci in un pub. E tirare tardi. Magari, già che siamo lì, possiamo anche approfittare per prendere una sbornia colossale e farla finire a cori e pacche sulle spalle. In compagnia degli irlandesi che il 17 marzo festeggiano il santo Patrizio (sembra così provinciale tradotto, nevvero?), loro patrono. E anche noi, con loro o senza. Comunque in un pub. Sarà – mercoledì – il verde a farla da padrone. Il colore della primavera, del trifoglio e – essendo il suo simbolo – dell’Irlanda. Ma è anche il colore dei folletti, questi piccoli esseri immaginari poco amichevoli, solitari. E che poi – stranamente – finiscono nelle fiabe di questo Paese riuscito ad esportare – oltre alla birra scura – anche l’Irishness, l’irlandesità.
Insomma: il St. Patrick day cala in Italia come un ciclone verde. E promette cicloni da far diventare verdi anche i fegati più provati. Lo scorso anno ad un irish pub della zona arrivò un pullman di irlandesi che alloggiavano a Riva del Garda. Finì a pinte di birra e canzoni degli U2 (massima espressione contemporanea dell’irlandesità nel mondo) cantate a squarciagola. Con l’autista dell’automezzo che – dovendo rimanere sobrio – piangeva dall’invidia. E quest’anno, replica. Attraverso quella sorta di cavallo di Troia costituito dagli irish pub, l’Irishness penetra anche il piccolo Trentino. Dietro alla birra, ai kilt esibiti senza troppa poesia dagli irlandesi importati, al verde degli gnomi e del trifoglio, la tradizione vorrebbe che il St. Patrick day sia l’occasione per ricordare il prelato cristiano che ebbe un ruolo fondamentale nella cristianizzazione dell’Irlanda. «Vabbè – penseranno molti – ma chi se ne frega di questo Patrick?». Sarà anche inutile ricordarlo, però è proprio grazie alla missione evangelica di tanti Patrick che si formò un’identità capace di interagire e resistere alle calate di vichinghi, norvegesi, danesi e normanni. Ed ora, piccoli Patrick moderni, la esportano. Il modo (pacifico) è quello classico: la tradizione attraverso le storie che questi Irish raccontano girando il mondo. Storie bellissime, affollate di gnomi e streghe, di magia. Ma sempre storie che hanno appreso dai loro nonni oppure letto a scuola, e hanno imparato. William Butler Yeats, poeta irlandese che a cavallo tra ‘800 e ‘900 ha contribuito in maniera determinante al rinascimento di un’Irlanda che non aveva nulla (tanto da beccarsi un Nobel nel ‘23), ha spiegato questa tecnica di diffusione culturale. Chiara e limpida esce dalle righe di un dialogo tra due suoi personaggi: «Sai raccontare una storia?» – chiede un vecchio di Innishowen a Pat Diver, giovane calderaio che gli chiedeva ospitalità. E alla sua risposta negativa gli sbatte sotto il naso il foglio di via: «Puoi anche andartene allora, perché in questa casa entra solo chi sa raccontare una storia». La fiaba si conclude con un omone che incontra Pat Diver, stralunato dalle mille peripezie vissute nei due mesi seguiti a quell’episodio, e gli dice: «Quando ritornerai a Innishowen avrai finalmente una storia da raccontare». Lineare no?
Andiamo un po’ indietro. Solo qualche mese, mica tanto. Nella notte tra il 31 ottobre e il primo di novembre, la faccenda era la stessa. Solo che allora – tra zucche, folletti, fantasmi e streghe – nei pub (anche trentini) abbiamo celebrato Halloween. Anche questa una antica tradizione celtica conosciuta attraverso la cinematografia anglosassone (personalmente, un film su tutti Halloween: la notte delle streghe di John Carpenter) ma che oggi ci troviamo addirittura a festeggiare, magari travestiti da fantasmi, senza sapere bene perché.
«È la globalizzazione, baby» – direbbe Humphrey Bogart – che si fa beffe di chi pensa di arginarla. Perché è nella vita di tutti i giorni, non si presenta soltanto nelle vesti dell’imprenditore che cerca mercati vantaggiosi o dello speculatore finanziario che può investire nel giro di pochi secondi in tutto il mondo grazie alla tecnologia. Per chi vorrebbe combatterla, è subdola: ti entra sotto pelle nel quotidiano senza che te ne accorgi, mentre guardi la tv e stravaccato sul divano fai lo zapping col telecomando fino ad arrivare a mtv, mentre ti infili le scarpette Nike per andare a correre, mentre ti ubriachi e sbavi parole in un improbabile inglese (che se non fosse per l’alcool mai ti cimenteresti a sfoggiare). E così anche i pub – nessuno si sognerebbe di chiedere la traduzione di questo termine, anche questo è un segno – diventano lo specchio di una cultura che cambia, che si contamina. Una volta dentro, te ne accorgi subito: questi locali hanno poco a che vedere con l’italico bar. Quello delle grandi compagnie, della sisal, della donna che sta a casa mentre il marito è fuori a giocare a briscola. Niente carte, niente partite, niente schedina. «Possibile?», ti chiedi spiazzato. Poi ti fermi, calamitato da un’atmosfera che – pur se nuova – non ti mette a disagio per l’arredamento fatto di luci basse e banconi lunghissimi con gli sgabelli dove ti puoi sedere senza tante cerimonie, di musica , di accozzaglie di oggetti raccolti qua e là, che hanno una loro storia ma potrebbero venire anche dalla cantina di tuo nonno e ti suscitano ricordi. Tuoi.
Embè, che c’è di male? È così cattiva questa globalizzazione? In fin dei conti, per mantenere la purezza culturale basterebbe non andare al pub, non celebrare il St. Patrick Day o Halloween, non indossare le Nike, non investire i soldi all’estero (o in banche che potrebbero farlo), tenere spenta la televisione, non andare al cinema, aborrire la letteratura e le parole straniere (per essere più sicuri: meglio parlare solo il dialetto), non usare Internet e – soprattutto – viaggiare poco, il meno possibile. Si sa mai che, guardandoci in giro, salta fuori che da qualche parte si coltivano costumi che fanno star meglio. Ammesso e non concesso che sia possibile farlo, pensiamo di volerlo davvero? Non è meglio andare avanti? Magari tenendo in tasca una storia da raccontare. Anche noi.
(L’Adige e il Mattino, 17 marzo 1999. Prima pagina)
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