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Tangentopoli, 30 anni dopo (17/2/2024)

L'inchiesta sulla corruzione "Tangentopoli" ha dato l'impulso all'implosione della Prima Repubblica. In un saggio, Nicola Zoller sostiene che fu un'operazione al limite dell'anti-democrazia. È stato così?


Pila di libri e un ebook

La rivista Uct di dicembre 2023 (in edicola fino al 20 gennaio) ha dedicato un numero monografico alla riflessione di Nicola Zoller: “Trent’anni fa, Tangentopoli”. Un lavoro con l’indubbio merito culturale di farci ripercorrere quei giorni di fine anni ’80 e inizio anni ’90 che tanto hanno cambiato il volto della politica italiana.

Il cuore della tesi di Zoller sostiene: Tangentopoli è stata una falsa rivoluzione che, «con operazione al limite dell’anti-democrazia», ha causato la scomparsa dei partiti tradizionali. Tuttavia, lungi dal migliorare il governo del Paese, tale scomparsa lo ha viceversa precipitato in un peggioramento generale. Sotto il profilo economico, sociale e politico.

Un ragionamento che riporta al centro del dibattito i partiti politici e un atto d’amore verso la Costituzione che ne sancisce ruoli e funzioni inderogabili. In qualche misura, la tesi di Zoller riprende senza manipolazioni il celebre discorso che Bettino Craxi tenne in parlamento il 3 luglio del 1992: un finanziamento irregolare e illegale al sistema politico – disse Craxi testualmente – «non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica».

Invece oggi sappiamo che andò proprio così.



Zoller prende le mosse da alcuni dati economico-sociali che attestano come prima del 1991, in un’Italia governata dai partiti tradizionali, i cittadini vivessero molto meglio. Dice Zoller: il reddito nazionale è cresciuto di cinque volte tra il 1950 e il 1990. Riportando un dato dell’economista Fadi Hassan, ricorda pure come il reddito pro capite degli italiani fosse nel 1991 l’86% di quello degli statunitensi mentre nel 2017 era calato al 63%.

Il problema di quel dato è che non tiene conto di come governavano la politica economica gli esecutivi del tempo. E cioè in regime di deficit spending: lo stato spendeva più soldi di quanti ne possedeva senza preoccuparsi delle coperture che potevano essere scaricate sulle generazioni future. Forse tale tecnica avrebbe potuto perdurare ancora per qualche anno, non fosse stato per gli accordi di Maastricht (dicembre 1991) quando si stabilirono i parametri per la partecipazione degli stati al progetto di Unione europea. Lì l’Italia si ritrovò in ambasce, tanto che – ricorda lo storico Paul Ginsborg – il Financial Times titolò “L’Italia verso la serie B”. L’inflazione al 6,9% e i tassi di interesse all’11,9% trascinarono il Paese a un deficit di bilancio del 9,9% (Maastricht prevedeva al massimo il 3%) e a un debito pubblico del 103% sul Pil (contro il 60% massimo previsto dagli accordi europei). Di questo problema reale, dovette farsi carico Giuliano Amato (anch’egli socialista) che, presidente del Consiglio dopo le elezioni dell’aprile 1992, diede corso a una manovra da 30 mila miliardi di lire e attivò un prelievo forzoso sui conti correnti degli italiani. Poi – dopo che la lira venne svalutata del 7% fino a uscire dal Sistema monetario europeo – attuò una seconda manovra straordinaria di 93 miliardi di lire con blocco del pensionamento per anzianità. Gran parte degli italiani s’inferocirono per tali manovre e si può ben capire come, in una situazione del genere, il terreno fosse pronto a prendere fuoco.

Zoller nel suo scritto ricorda come in quel periodo aleggiasse sinistro il tintinnar di manette e sottolinea anche come i magistrati usarono in maniera disinvolta il carcere preventivo allo scopo di estorcere confessioni. Parla a tal proposito di «foga forcaiola», a rimarcare quei momenti come monito da tenere sempre presente perché ciò non accada nuovamente.

Questo è il nocciolo del suo ragionamento: all’epoca la distinzione tra avviso di garanzia e condanna sembrava essere inesistente. E tuttavia, c’è da chiedersi, in uno stato di diritto con uno stabilito quadro normativo: cosa avrebbero dovuto fare i magistrati di fronte alla situazione che si sono trovati dinanzi in quel periodo? Da anni ormai dilagava il malcostume. Almeno dal 1983: caso Teardo, socialista, ex presidente della Liguria arrestato e condannato per corruzione. Poi, tra il 1986 e il 1988 ci furono le dimissioni del sindaco di Milano Carlo Tognoli, dunque il caso della bancarotta di Paul Marcinkus; l’arresto di Rocco Trane per tangenti nel settore ferrovie. Franco Nicolazzi, ministro socialdemocratico, coinvolto in una storia di «carceri d’oro». Nel 1989 saltò fuori lo scandalo dei finanziamenti illegali della Banca Nazionale del Lavoro presieduta da Nerio Nesi e che coinvolse anche Bettino Craxi. E non furono solo socialisti a esserne coinvolti: Duilio Poggiolini e i suoi lingotti d’oro, il ministro Francesco De Lorenzo… Con la Dc che praticamente iniziò a sfarinarsi. In tale quadro, alle elezioni regionali del 1990 ebbe gioco facile la Lega a incassare il 18,9% dei consensi in Lombardia (e il 4,8% nazionale) con il semplice slogan «Roma ladrona».

Dunque la domanda da porsi è: quando, nel famoso 17 febbraio 1992 che aprì “Tangentopoli”, il presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa fu colto in fragrante mentre intascava una tangente, i magistrati avrebbero potuto fermare l’indagine? Sarebbe stato giusto farlo? In realtà, appena arrestato Chiesa, pure il segretario del Psi Bettino Craxi che era suo amico (sono rimaste famose le loro cene assieme, in particolare quella del Saint Andrews’ con le compagne e Mike Bongiorno) subito lo scaricò come un «mariuolo» che infanga il nome del partito. Alcuni mesi dopo aggiustò il tiro con la famosa arringa sulla responsabilità dei partiti.

Così, anche ammesso che avessero voluto/potuto farlo, quando i magistrati avrebbero dovuto smettere di indagare?

I politici un’idea ce l’avevano, dato che il 13 luglio del 1994 cercarono di fermare i giudici. Il ministro della giustizia del governo Berlusconi Alfredo Biondi propose un decreto legge chiamato dalle opposizioni «colpo di spugna» per mettere fine all’inchiesta di Tangentopoli. Fu il ministro dell’Interno della Lega Roberto Maroni il più strenuo ad opporsi, e il decreto fu ritirato.

Un altro passaggio della tesi di Zoller è che a spazzare via i partiti della cosiddetta prima repubblica, favorendo Tangentopoli, sarebbero stati «un polo mediatico/finanziario – di cui inizialmente ebbero parte molto attiva le reti tv berlusconiane – e quello giudiziario». Poli che trovarono poi interlocutori nel «ribellismo leghista», nel «massimalismo giustizialista» fino al «revanscismo fascio/comunista plasticamente rappresentato dalle comuni operazioni di piazza contro il capro espiatorio designato, tra cui spicca il lancio di monetine contro Bettino Craxi il 30 aprile 1993».

In realtà, fuor di astratte categorie, a giovarsi di Tangentopoli dal punto di vista dei consensi politici fu senz’altro la Lega che ne cavalcò l’onda e dalle elezioni del 5 aprile 1992 divenne a tutti gli effetti un nuovo protagonista; tuttavia a vendemmiare il seminato dei magistrati – paradossalmente – fu l’amico più caro di Craxi: Silvio Berlusconi. Che prima puntellò le inchieste dei giudici (come ricorda Zoller) con il suo sodale giornalista Emilio Fede, e poi utilizzò le sue televisioni e le sue aziende per fondare dal niente il partito Forza Italia (composto da molti ex socialisti) e vincere le elezioni del marzo 1994 attaccando a più riprese i magistrati di Mani pulite (come era chiamato il pool che si occupò di Tangentopoli) da lui definiti “toghe rosse”. Berlusconi ottenne alla Camera il 21% dei consensi, vincendo in coalizione con An (al 13,5%) e la Lega Nord (all’8,4%) in un Parlamento che vedeva sedere sugli scranni il 68,7% di volti nuovi.

La pagina di Zoller che ricorda come il sindaco di Milano Paolo Pillitteri fosse il cognato di Bettino Craxi offre l’opportunità di registrare i ricorsi storici. Se oggi, ad esempio, molti avversari politici imputano alla premier Giorgia Meloni di avere una classe dirigente meno che mediocre e per di più reclutata tra amici e parenti, senza retrocedere fino a Mussolini e a suo cognato Galeazzo Ciano, trent’anni fa le medesime critiche erano rivolte a Craxi e la sua cerchia. Raccontava Giorgio Bocca che il figlio di Craxi, Bobo, era stato imposto come segretario del Psi milanese; che «il “devoto Cornelio” uno senza arte né parte nominato direttore di un circolo culturale e diventato il segretario inseparabile del capo»; e ancora che ai tempi il comune dava «un sussidio di duecento milioni a Antonio Craxi, fratello di Bettino».

Zoller nel suo saggio accomuna Craxi a Garibaldi, Turati, Pertini e Dante. Conoscendo l’intelligenza dell’autore, senz’altro l’ardito paragone non è tanto legato al fatto che tutti abbiano lasciato l’Italia (piaccia o meno, tecnicamente Craxi era un latitante), ma senz’altro affonda le radici nelle qualità visionarie dimostrate dal leader socialista nei primi anni Ottanta, nella sua capacità di assumere decisioni, nella sua intuizione che l’Italia non poteva essere modernizzata da un Pci ancora marcatamente comunista e da una Dc legata ai suoi provinciali capicorrente. E, soprattutto, nella capacità di Craxi in politica estera di affrancare l’Italia dal giogo a stelle e strisce: emblematici sono i casi della condanna all’attacco statunitense di Grenada del 1983, Sigonella (quando Craxi, nel 1985, non permise agli americani di arrestare sul suolo italiano i dirottatori dell’Achille Lauro) e l’interdizione delle basi Nato italiane agli Usa per bombardare Tripoli nel 1986. Un indipendentismo orgoglioso, del tutto impensabile per l’attuale classe politica.


Maurilio Barozzi (in L'Adige, 18/2/2024)



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