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Vienna tra Sacher e Kebab (1/9/2025 - l'Adige)

  • Immagine del redattore: Maurilio Barozzi
    Maurilio Barozzi
  • 7 set
  • Tempo di lettura: 4 min

Sacher e Kebab che convivono lungo le strade viennesi assurgono a simbolo di una città oggi multietnica e cosmopolita. Dove tuttavia non mancano note di nostalgia per i tempi dell'impero né, d'altra parte, caustiche ironie


Stephansdom - Vienna
Stephansdom - Vienna

Maurilio Barozzi - Le Città nei libri/17


Come appare distante l’assedio del 1683 descritto da Nick Thorpe nel suo libro “Il Danubio”, quando «dopo più di due settimane di assedio, i Turchi riuscirono ad aprire un’enorme breccia e le truppe entrarono a Vienna per la prima e unica volta. Dopo ore di aspri combattimenti corpo a corpo, però, furono respinti». Oggi Vienna è a tutti gli effetti una città cosmopolita e multietnica. «L’incontro tra l’Europa e l’impero ottomano» che, scrive Claudio Magris, «aggredendosi e dilaniandosi, finiscono per compenetrarsi impercettibilmente e per arricchirsi a vicenda». Sacher e Kebab che convivono lungo le strade viennesi assurgono a simbolo.

Sebbene lontani appaiano i clangori di scimitarra, basta una passeggiata tra i magniloquenti palazzi del Ring – dal Burgtheater, al Parlamento, al Neues Rathaus - per tornare alla Vienna imperiale. E poca fantasia serve per immaginare le pagine di Joseph Roth, ambientate a inizio 1900: «L’intera città non era che un unico gigantesco castello imperiale. Imponenti, sotto gli archi dei portoni degli antichissimi palazzi, stavano i portieri in livrea con le loro mazze, gli dèi tra tutti i servitori» che, all’arrivo di Francesco Giuseppe, «andavano in corteo sulla carreggiata della Ringstrasse, in due larghe file, gli appartenenti alla guardia del corpo in bianche, angeliche pellegrine con mostre rosse e pennacchi bianchi, scintillanti alabarde in pugno, mentre i tram, le carrozze di piazza e persino le automobili si arrestavano davanti a loro come davanti a ben noti, familiari fantasmi della storia».

Anche grazie ai libri, si alimenta il mito asburgico di una Vienna che si culla tra «valzer, le uniformi degli ussari e le bellissime donne austro-slave dell’Europa orientale, le pazzie degli arciduchi e l’impeccabile stile dei camerieri», illustra ancora Magris.

Pure Robert Musil descrive l’Austria degli Asburgo (prima di divenire impero Austroungarico) come Austria felix: «Quella nazione incompresa e ormai scomparsa che in tante cose fu un modello non abbastanza apprezzato». E con ironia aggiunge: «In Cacania (il Kaiser-Königlich) un genio era sempre scambiato per un babbeo, mai però, come succedeva altrove, un babbeo per un genio».

La nostalgia dei tempi imperiali irradia il mito, peraltro sferzato da taluni intellettuali. Leo Perutz mette in bocca a Kallisthenes Skuludis, un personaggio di “Dalle nove alle nove”: «Trovò che Vienna, in fondo, non fosse altro che una città di provincia, un villaggio africano, nel quale ogni straniero vestito appena appena decentemente veniva osservato come un mostro marino…». Un romanzo, questo, che Perutz ambienta a inizio Novecento nella capitale austroungarica per imputare ai viennesi cinismo e straniamento (divenuti capolavoro in “Prima del calcio di rigore” del premio Nobel Peter Handke) tali da renderli incapaci di cogliere cosa stia accadendo al loro “amico” Stanislaus Demba. In quel periodo (il libro è del 1918) pullulano i movimenti critici. Per forma e causticità, la punta di diamante della contestazione sono gli aforismi di Karl Kraus (per esempio: «Vienna è tutta un monumento e ogni viennese si sente tale; l’ultimo dei galoppini ama sentirsi su un piedistallo»). Aforismi che non passano mai di moda. Se infatti avrebbe sorriso soddisfatto il von Trotta di Roth davanti alle coppie in frac e abiti da sera che ancora oggi – 2025 – si aggirano nella zona dell’Opera a bordo dei fiacre sorseggiando champagne, Kraus sarebbe inorridito, come illustra una delle sue sentenze: «Il cavallo ha il mondo davanti a sé. Per il cocchiere il mondo è grande quanto il didietro del cavallo. Per i signori in carrozza il mondo è grande quanto la schiena del cocchiere. E quanto al popolo che guarda a bocca aperta, per loro il mondo è grande come la faccia del signore in carrozza».

L’architettura è la rappresentazione plastica delle pulsioni viennesi. Nostalgia, contrapposizioni, armonie, cosmopolitismo. Otto Wagner, disegnando i padiglioni di Karlsplatz, per consonanza si richiama nei colori e nelle decorazioni alla vicina chiesa di San Carlo. Viceversa, le guglie appuntite del gotico Stephansndom che si riflettono nella specchiata e tondeggiante Casa Haas dell’architetto Hans Hollein, mostrano la versatilità della capitale austriaca. E Michealerplatz costituisce un altro simbolo della convivenza degli opposti: di fronte al ridondante e barocco palazzo imperiale (Hofburg) dal 1909 gli si contrappone Casa Loos, un edificio spoglio – dove peraltro si vendono Rolex - e fedele all’idea di austera razionalità dell’architetto. Nel celebre articolo “Ornamento e delitto” Adolf Loos teorizzò infatti che «l’evoluzione della cultura è sinonimo di eliminazione dell’ornamento dell’oggetto d’uso». Lui che nel suo American Bar ideò l’uso di specchi per moltiplicare i 36 metri quadrati del locale e le bottiglie dietro al bancone.

Forse è vero però che Vienna riempie gli occhi fino ad accecarli. In ogni cantone - per non parlare del bel Danubio blu - una casa da vedere: quella che fu di Mozart, di Freud, di Wittgenstein… In città diventa attrattiva anche il vecchio monte dei pegni che, spiega Elias Canetti, «porta l’appropriato nome di Theresianum». Dunque soccorre ancora la caustica mordacia di Kraus: «A Vienna le strade sono lastricate con la cultura. Nelle altre città con l’asfalto».


(Maurilio Barozzi, L’Adige 1/9/2025)


La pagina del quotidiano l'Adige
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