Cracovia tra chiesa e cosmopolitismo (2/6/2025 - l'Adige)
- Maurilio Barozzi
- 2 giu
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Maurilio Barozzi - Le Città nei libri/14
Un vecchio pompa acqua da una fontana della piazza per riempire i secchielli che trasporta su un carretto: poi farà bere i cavalli dei fiacre che riportano alla Belle Époque di una città adagiata sulle sponde della Vistola.

Ecco Cracovia, perennemente a dondolo tra la sagacia popolare - non fu un calzolaio a sconfiggere con l’astuzia il drago del Wawel? – e il cosmopolitismo di città di confine che l’ha distanziata dalla rigidità burocratica e clericale di Varsavia. «Ma com’è la Polonia di oggi? Di certo un’unica nazione, un’unica cultura e un’unica religione (…). L’omogeneità, d’altro canto, è sempre a vantaggio di uno sviluppo felice?» si chiedeva il regista Andrzej Wajda alla vigilia dell’ingresso polacco in Europa.
Un po’ dell’ambizione reale di un tempo, Cracovia in realtà ce l’ha ancora. Chiedi agli abitanti: la piazza del mercato? «La più grande d'Europa». Non è vero, ma intanto l'han buttata lì. L’Università Jagellonica? «Vi studiò Copernico: fondata nel 1364, è l'Università più antica d'Europa». Anche se precisano «dopo Padova e Bologna. E forse Praga», dimenticando, tra le altre, Parigi, Oxford, Cambridge, Napoli, Tolosa, Coimbra, Salamanca, tutte fondate prima del 1300. Parliamo di pub? «A Cracovia c'è il più alto numero di locali in rapporto agli abitanti. Come Parigi», si vanta un barista.

Crocevia tra Leopoli e la Slesia e tra l’Europa del Sud e il mar Baltico, la città ha sempre rifiutato una collocazione definitiva. «È un’eco di conchiglia a cui manca il mare», per usare le parole di Wislawa Szymborska, lei sì la più grande poetessa polacca.
Invasa dai tartari - persiste a tutt’oggi il suono di tromba strozzato nella gola della sentinella infilzata da una freccia -, la liberalità cittadina è sbocciata con Casimiro il Grande. Il re illuminato fondò l’Università Jagellonica, diede accoglienza agli ebrei nell’agglomerato di Kazimierz e consentì anche in seguito la libertà di culto. Tuttavia, ricorda Jacques Le Goff, «soprattutto nel clero vive il nazionalismo polacco. Il sinodo di Leczyca del 1285 ordina di nominare direttori delle scuole ecclesiastiche solo chierici che conoscano bene il polacco», e un arcivescovo «ordina di recitare le preghiere in polacco, “ad conservacionem et promocionem linguae polonicae”».

Nell’U Muniaka, uno dei jazz club del centro ricavati da scantinati, mi spiegano che a Cracovia proprio nelle cantine, oggi divenute bar o locali, è stato ricostruito il senso di essere polacchi. Quando la città, dopo essere stata dichiarata libera dal Congresso di Vienna (1815) fu occupata dall’Austria-Ungheria (1846: Galizia o Polonia austriaca), gli irredentisti si ritrovavano furtivamente nei sotterranei, che allora dovevano pure essere comunicanti. Lì, tra vodka e birra, continuavano a parlare in polacco, preparando la riscossa.

Sempre nei bar, stavolta è un cabaret, sobbolle lo spirito culturale di Cracovia. Boy-Zelenski, a inizio Novecento, inventò il cabaret Zieloni Balonik (oggi Jama Michalika) che con poesie e testi sacrileghi sferzava la doppia morale bigotta della Cracovia bene, lo stile decadente della Giovane Polonia e pure i bohémien della città. Difficile, nel 2025, immaginarsi quei tempi frizzanti, in una Polonia ingrigita dalla guerra, le deportazioni, il comunismo e dai rigurgiti nazionalisti espressi da un governo bigotto e reazionario. «Non vi è oggi per la Polonia causa più importante dell’ingresso nell’Unione europea. (…) Uno Stato con una moneta unica e una comune politica economica», ebbe a dire nel 2001 Lech Walesa. Peccato che nel 2004 la Polonia aderì alla Ue, mantenendosi lo zloty, la moneta, come estrema affermazione identitaria (peraltro in compagnia di Ungheria, Bulgaria e pochi altri).

«Per me la Polonia senza ebrei, senza ucraini, senza armeni, così com’era a Leopoli, senza valacchi, senza famiglie di origine italiana, ha smesso di essere la Polonia», ha scritto il poeta polacco (esiliato) Zbigniew Herbert. A Cracovia il ghetto ebraico Kazimierz fu svuotato dai nazisti nel 1941. Ricorda Tadeusz Pankiewicz, il “farmacista del ghetto di Cracovia”: «Si chiudevano negozi, ristoranti, sinagoghe nei quali i secoli avevano inciso un segno profondo. Sparivano i simboli originali, mutava la vita delle strade del vecchio Kazimierz». Ora il quartiere è tornato a pulsare vita ma la storia delle deportazioni degli ebrei polacchi permane. Come la triste memoria del campo di sterminio di Auschwitz, nel contempo monito e richiamo, alla cui esistenza Cracovia è ormai indissolubilmente legata. Molta letteratura che riguarda la città è incentrata su quel drammatico luogo: «L’edificio color marrone fuligginoso della stazione si stagliava davanti a noi. Non differiva in nulla da centinaia di altri edifici di stazioni rurali che in passato nei miei viaggi in treno avevo superato senza prestarvi alcuna attenzione. Sulla facciata e sui due lati campeggiava la sola scritta tedesca: AUSCHWITZ», descrive un sopravvissuto, Jozsef Debreczeni, in “Crematorio freddo”. E chiosa il grande poeta polacco Czeslaw Milosz nel 1969: «Dio non moltiplica ai virtuosi pecore e cammelli/ e nulla toglie per l’omicidio e lo spergiuro./ Si è nascosto tanto a lungo che ci si è dimenticati della sua apparizione». Anni dopo, a Cracovia, avrebbero incoronato papa Karol Wojtyla.
(Maurilio Barozzi, L’Adige 2/6/2025)


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