Ouro Preto, capitale del barocco brasiliano (6/10/2025 - l'Adige)
- Maurilio Barozzi

- 7 ott
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Maurilio Barozzi - Le Città nei libri/18
In Brasile, dove ora c’è la città Ouro Preto, un tempo erano solo montagne, alberi e foreste e la zona era nota col nome di Sertão dos Cataguases. Poi, nel 1692, i bandeirantes, i primi esploratori, tra quelle colline lussureggianti e nel rio Tripui trovarono l’oro e la zona divenne appunto un Eldorado, richiamo per avventurieri e uomini d’affari con tanto di pelo sullo stomaco. Gente che non si faceva alcun riguardo pur di imbarcare manodopera per la propria attività. Così «schiavi furono portati in Brasile, tanti. E scavarono nelle miniere con braccia robuste. E si convertirono alla nuova fede, confidando in un dio che li salvasse dalla schiavitù e che per coincidenza era lo stesso di coloro che li avevano fatti schiavi», scrive Antonio Tabucchi parlando della città nel suo “Viaggi e altri viaggi”. Tra quegli schiavi, narra Rogério Alvarenga, fu deportato anche Galanga Muzinga, re di una tribù congolese. Una volta in Brasile, fu tradotto nel Minas Gerais, a Ouro Preto (che agli inizi del XVIII secolo si chiamava Vila Rica, Città ricca) e venne ribattezzato Chico. Chico però non perse mai né calma né fiducia e scavò per anni senza risparmiarsi, fino a potersi comperare la libertà e pure una miniera che il padrone riteneva esaurita mentre invece non lo era. Così Chico si arricchì, fu incoronato Chico Rei dai suoi compaesani africani costretti alla traversata, e contribuì a far costruire la chiesa di Santa Efigênia assieme agli altri schiavi che, per contribuire all’opera, rubavano nelle miniere dove lavoravano. La storica Angela Leite Xavier racconta che, dato che dovevano scavare nudi per evitare che nascondessero nei vestiti pietre preziose, quelli si cospargevano la polvere d’oro nei capelli crespi che poi lavavano al ritorno a casa. E con quell’oro, pazientemente raccolto giorno dopo giorno nei capelli, gli schiavi costruirono la chiesa sulla collina, assieme a Chico Rei.
Oggi in città permane la leggenda del re congolese che ha fatto fortuna, i resti della sua miniera e pure una locanda che porta il suo nome e che è stata ricordata dai versi che Vinicius De Moraes dedicò alla visita fatta alla città con Pablo Neruda: «A Ouro Preto/ ti mostrai la pousada Chico Rey,/ dove con l’amica Lili/ a ber whisky ti trastulli...».
Oltre alle chiese, i nuovi arricchiti costruirono case e palazzi sontuosi, pretendendoli impreziositi dalla cura dei migliori maestri del barocco. In particolare lo scultore Antonio Francisco Lisboa, detto Aleijadinho. Fu lui a decorare la più famosa chiesa della città - dedicata a Francesco d’Assisi - e a renderla un richiamo irresistibile per tutto il Brasile, tanto che il poeta Carlos Drummond de Andrade, estasiato, scrisse: «Non entrai, Signore, nel tempio/ il suo frontespizio mi bastava».
Ribattezzata definitivamente Ouro Preto (oro dei neri), verso la fine del 1700 la città era tanto ricca che ritenne di potersi rendere indipendente dal Portogallo. Nacque così il movimento irredentista detto dell’Inconfidência Mineira. Un movimento represso nel sangue: come molti adepti, il poeta Tomás Antônio Gonzaga fu esiliato in Mozambico mentre Tiradentes, il capo, fu vittima di un tradimento e venne impiccato in piazza.
Ancora oggi si dice che gli abitanti di Ouro Preto siano ossessionati dalla ricerca della sua testa, rubata dopo l’esecuzione. In effetti, nel Minas Gerais, i ladroni non sono mai mancati, a giudicare dalle pagine di João Guimarães Rosa che in quello stato ambientò il suo “Grande Sertão”. Si chiamavano jagunços «ladri di cavalli e assassini», scrive. E l'ambiente, il sertão, nonostante significhi alla lettera grande deserto, è descritto così: «È dove i pascoli mancano di steccati; dove uno può andare dieci, quindici leghe, senza trovare una casa abitata; e dove il criminale vive a suo piacere, lontano dalle strette dell'autorità». Insomma, una sorta di Far West dove ci sono ancora «foreste enormi, addirittura vergini».
Oggi Ouro Preto è una cittadina dislocata su svariate colline che unisce i suoi agglomerati con ripide salite dal selciato sconnesso. John Dos Passos, a metà del Ventesimo secolo, la descrive così:«Il barocco coloniale lì assumeva un aspetto (più) maestoso e imperiale. Era una città di grandi facciate e piazze dalla forma irregolare, con montagne rocciose a delimitare ogni passaggio. seppur nata da una diversa corsa all’oro e in una differente cultura, e costruita artisticamente con pietre scolpite e intonaco invece che con assi di pino inchiodate alla rinfusa, Ouro Preto aveva la stessa, inconfondibile aria di tutte le città di minatori della sierra americana. Adesso invece è una città di scuole e di musei». E di leggende, e di spettri, e di premonizioni, e di chiese. Tredici chiese per una cittadina di settanta mila abitanti costituiscono l'eredità di una ricchezza dalla quale la corona portoghese attinse a piene mani. Non solo frutto dell’oro, comunque. Anche diamanti, ferro e pure acciaio. Ma principalmente, Ouro Preto è una città di silenzi che all’alba lascia respirare un’aria sempre fresca e avvolge chi ne percorra le ripide strade in un quieto mantello, quasi un ordito di lirici pensieri.
Maurilio Barozzi, L’Adige 6/10/2025

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