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A Barcellona con Bolaño e Montalbán (1/11/2025 - l'Adige)

  • Immagine del redattore: Maurilio Barozzi
    Maurilio Barozzi
  • 1 giorno fa
  • Tempo di lettura: 4 min

Terreiro de Jesus a Bahia  all'imbrunire
Casa Battlò - 2007 Barcellona (Spagna)

Maurilio Barozzi - Le Città nei libri/20


Vicino a Catalunya, sulla Ronda de Sant Pere, ecco il palazzo che per qualche giorno sarà casa. Un edificio bello, massiccio e fregiato: tipico barocco catalano. Barcellona è città bellissima, ma molto poco spagnola. Più Paris che Madrid, verrebbe da dire. Se non ci fossero di mezzo Gaudì, Domènech i Montaner e Puig i Cadafalch.

Comunque. L’ascensore è tutto grate in ferro e funi a vista, e il cigolio della salita promette pelle d’oca. Quarto piano: due bagni in comune per svariate stanze. Diciamo spartane, per non far gli schizzinosi. Letto, niente armadio e lavandino mignon, di quelli che in carcere fan da orinatoio. Spariglia il balcone sull’Arc de Triomf e giù giù, a perdita d’occhio fin alla Vila Olimpica e al mare. Ecco dove han scattato la foto per AirBnb, furbacchioni.

Se vado a sud, c’è la Ribera, raccontata agli albori da Ildefonso Falcones (“La cattedrale del mare”). «Lì, nella stessa via del Mar, si erano installati gli orafi; le altre strade avevano preso il nome da banchieri, cotonieri e panettieri, vinai e formaggiai, cappellai, spadai e da un gran numero di altri artigiani. Vi avevano costruito un deposito di cereali in cui venivano ospitati i mercanti stranieri in visita in città, e piazza del Born, dietro Santa Maria, dove si tenevano giostre e tornei». Senz’altro lì fu disarcionato Don Chisciotte nel più disgraziato duello della sua esistenza: battuto dal Cavaliere della Bianca Luna, dovette interrompere le sue errabonde gesta («¡Aquí fue Troya!», disse uscendo da Barcellona). Dunque giù, a rincorrer le oche della Catedral de Santa Eulàlia, attraverso la Layetana, dove Roberto Bolaño vagabondava «prendendo un caffè nei dehors, piattini di calamari e vino nelle taverne, leggendo i giornali sportivi» (“Detective Selvaggi”).

Cosmopolita per geografia e rivoluzionaria per riflesso franchista, Barcellona è città esibizionista per vocazione e per attrazione. Dunque terra di artisti di strada. Giulia, ventenne francese con ambizioni musicali e chitarra a tracolla, ci vive da alcuni mesi. In Plaza Reial, tra palme e porticati, allieta turisti e incassa propina. Due canzoni di Tracy Chapman al volo e via, verso nuovi plateatici. In dieci minuti suona, canta, le offrono un tè e mette in saccoccia suppergiù trenta euro. Se tiene il ritmo, fra un po’ si compra casa. Svoltato l’angolo si appare sulle Ramblas dove, scriveva Manuel Vázquez Montalbán nel 1975, «il fresco della sera ha nuovamente riempito il marciapiede centrale di pedoni e di esseri contemplativi che, sotto i platani e dalle seggiole pieghevoli, trasformavano i passanti in uno spettacolo inesauribile» (“Tatuaggio”). Oggi in realtà, con perpetuo starnazzar di nottambuli e vacanzieri (ogni anno 20 milioni di persone visitano Barcellona, dove ne abitano 1,7 milioni), le Ramblas non si svuotano mai e, ora come allora, all’imbrunire sbucano dai loro nidi sciami di peripatetiche. Africane, sudamericane, dell’Est, spagnole: massima integrazione. Molte però in età pensionabile: il welfare fa un po’ d’acqua anche in Catalogna. Meglio svignarsela da quel crocicchio tossico per buttarsi tra le braccia del conterraneo Cristoforo che da lassù, a 52 metri di altezza, indica le Indie. Un presentimento, dato che non c’è negozio, hostal o lupanare che non sia in mano a indiani o pakistani sulle Ramblas e nel Raval, quartiere dove il 49,9% degli abitanti è straniero.

Dunque, il Raval. «Sono secoli che Melchor non viene al Raval, l’ex Barrio Chino, nel cuore di Barcellona. In realtà, non lo ha mai frequentato molto, nemmeno quando, quasi adolescente, distribuiva droga per un cartello di colombiani e di tanto in tanto capitava da quelle parti per controllare gli spacciatori che lavoravano in zona. Adesso lo colpiscono la sporcizia, il rumore e la saturazione di turisti», annota Javier Cercas (“Indipendenza”).

Tuttavia, impermeabile ai rigurgiti gestionali cittadini, coi suoi azulejos alle pareti persiste la locanda Casa Leopoldo. La prima trattoria dove mangiò Pepe Carvalho, il personaggio di Montalbán, presumibilmente a metà del Ventesimo secolo: «Un ristorante recuperato dalla mitologia dell’adolescenza. La madre quell’estate si trovava in Galizia e il padre aveva portato Pepe a pranzare al ristorante, fatto insolito in un uomo convinto che nei ristoranti non facessero che rubare e spacciare porcherie» (“I mari del Sud”).

«Barcellona è cambiata. Gli architetti barcellonesi no», sentenzia Bolaño. E per godere di Gaudi – Casa Battlò, Pedrera e Sagrada Família –, viro a Nord lungo Paseo de Gracia. Non prima di una  terapeutica tappa tapas. Adorna di apocrifi colonnati corinzi, c’è Txapela, taverna basca con slapstick compresa nel prezzo: una bimbetta arraffa il cellulare a un tavolino e scappa, il derubato strilla, la cameriera molla il vassoio, rincorre tra la folla la monella, infine torna col maltolto. Applausi, e gioia dello sventurato. Que más? Quindi su, lento pede, verso la Mançana de la discòrdia, tra catafalchi gotici e sciancrature barocche, le rotondità da panforte di Gaudì lievitano nelle fatate forme di Casa Battlò. Colonne paraluce e vetrate ricurve, mosaici policromi, balconcini metallici e tetto in ceramica a squame di drago: modernismo, olè. Poco oltre, dal tetto della Pedrera, in mezzo a onirici archi parabolici a far da frangiflutti, si nuota con lo sguardo sui tetti fino alle guglie della Sagrada Família, opera ultima e mai definitiva del definitivo architetto catalano. È Barcellona.


Maurilio Barozzi, L’Adige 1/12/2025



La pagina del quotidiano l'Adige
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