Siviglia (7/4/2025 - l'Adige)
- Maurilio Barozzi
- 7 apr
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Maurilio Barozzi - Le Città nei libri/12
Siviglia, figlia del Guadalquivir e madre delle Americhe, scintilla come una città delle Antille. I raggi del sole – sfavillanti contro la torre bianca; quella d’oro; le palme verdi; gli aranceti; il ferro battuto; i fiori variopinti e i drappi alle finestre; il blu del cielo riflesso nell’acqua – generano un caleidoscopio vanitoso simile a un enorme abito di lustrini rococò. Nelle strade: uomini d’affari, turisti, zingare, cantanti improvvisati, automobili, l’odore dei gas di scarico, il fetore dei rifiuti. L’uomo, le sue creazioni, i suoi spurghi: la città. Dall’Arenal, quartiere sul fiume, una volta «partivano le flotte e le armate per il nuovo mondo, e lì ritornavano portando immense ricchezze sotto forma di perle, pietre preziose e metalli», racconta Matilde Asensi nel suo “La vendetta di Siviglia”. E non aveva preso le mosse da lì, con finanziamenti fiorentini e genovesi prima di partire con la flotta da Palos, pochi chilometri a sud, anche la missione “indiana” di Cristoforo Colombo?
«Gran Babilonia di Spagna,/ mappa di tutte le nazioni,/ dove il fiammingo ha la sua Gent/ e l’inglese trova la sua Londra» dice di Siviglia Luis de Góngora a fine sedicesimo secolo. E sulle sue orme, celebrandone il terzo centenario di morte, nel 1927 a Siviglia si ritrovarono i poeti della Generazione del 27: Federico Garcia Lorca, Rafael Alberti, Jorge Guillén, Gerardo Diego, José Bergamin ma anche il cineasta Luis Buñel e il pittore Salvador Dalì che proprio a Siviglia idearono “Un cane andaluso”. Città di artisti, culla anarchica dell’avanguardia.
Il proverbio propala prodigo: quien no ha visto Sevilla, no ha visto maravilla. Meraviglia meticcia, un po’ araba, un po’ gitana, un po’ spagnola. Yo mudéjar te quiero, y no cristiana – ti voglio mudéjar, non cristiana – appunta Gerardo Diego nel suo poema alla Giralda, minareto senza scale di 90 metri che dal 1190 torreggia «nel prisma puro di Siviglia» e summa dell’incrocio architettonico maomettan-cristiano. Simbolo sivigliano, la Giralda è fantastico richiamo secolare. Con la consueta ironia, Miguel de Cervantes la cita all’inizio del diciassettesimo secolo, quando il cavaliere del Bosco racconta a don Chisciotte di essersi innamorato «dell’impareggiabile Casildea di Vandalia» e delle imprese cui fu spronato. «Una volta mi comandò di andare a sfidare quella famosa gigantessa di Siviglia chiamata la Giralda, che è così agguerrita e forte perché è fatta di bronzo, e che senza mai muoversi dal suo posto è la più mobile e volubile donna di questo mondo». Romero Murube, poeta e direttore dei giardini dell’Alcazar, con cinico umorismo fa presente: «Tutti i suicidi che si sono buttati dalla Giralda concordano nell’affermare che l’unica impressione che si prova è che Siviglia salga, vertiginosa, fino al cielo».
E fino al cielo sale Siviglia nella Semana Santa (quella di Pasqua) tra cerimonie e mea culpa. Soprattutto s’innalza, aiutata dalla sangria, qualche giorno dopo, durante la Feira de Abril, una settimana di feste, flamenco e corride nel quartiere Real de la Feria, poco distante da Los Remedios. Strade di terra e casetas che in una settimana ospita festaioli notte e giorno: campesinos in bolero e cappello di feltro, vispe donne con gonna a balze e mantelle variopinte, ballerini di fandango, orecchini con pendenti, zigani col violino, storpi a elemosinare, lustrascarpe al lavoro su stivali cavallerizzi, carrozze e cavalli addobbati da fiori e campanelle di stoffa bianca o rossa. E le vie squadrate dedicate ai toreri: Gitanillo, Chicuelo, Joselito El Gallo, Manolete e l’immenso Belmonte che consigliava: «Se vuoi toreare bene, dimentica di avere un corpo», ricorda José Bergamin, poeta della «silenziosa musica» della corrida, musica che dimora nell’aria e nella luce dei «vestiti-maschera» pronti a spegnersi e riaccendersi, illuminati dal simbolo d’immortalità: il traje de luz, scintillante abito del torero nelle corride.
Poi ancora su, lungo Calle Betis, il vecchio nome del Guadalquivir, da dove, al di là del fiume, si può ammirare la Torre dell’Oro «che ha risucchiato ciò che i galeoni avevano portato nei meandri delle loro cabine», disse Luis Vélez de Guevara nel suo satirico “Il diavolo zoppo”. E il quartiere di Triana da qualcuno definito «una Trastevere cui la speculazione ha strappato l’anima», prima di guadare e apprendere le sacre preghiere dei matador al museo taurino della Real Maestranza, l’arena resa immortale dalla Carmen di Prosper Mérimeé (e Georges Bizet). Per fuggire il caldo che d’estate supera i 40 gradi, tocca poi immergersi negli ombreggiati tapas-bar delle viuzze lastricate del Barrio Santa Cruz, un labirinto in cui il sole fatica a ritrovarsi e pochi tacchi flamenchi risuonano nel silenzio della siesta pomeridiana che nemmeno i turisti riescono a scalfire.
Dunque avanti, ai giardini dell’Alcazar – caposaldo del mudéjar tanto caro a Diego – dove, se hai buon orecchio, a las cinco de la tarde puoi ancora udire Federico Garcia Lorca leggere “Il pianto per la morte di Ignacio Sánchez Mejías” che ora «esanime vacilla nella nebbia/ in migliaia di zoccoli inciampando/ come una lingua, oscura, triste lingua,/ per formare una pozza di agonia/ presso il Guadalquivir del firmamento». Rieccolo, immaginifico, il fiume che ha fatto di Siviglia la porta delle Americhe.
Maurilio Barozzi, L’Adige 7/4/2025

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