Santo Domingo, la prediletta di Cristoforo Colombo (5/5/2025 - l'Adige)
- Maurilio Barozzi
- 5 mag
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Maurilio Barozzi - Le Città nei libri/13
Ci è voluta la caparbietà spregiudicata di Cristoforo Colombo perché Santo Domingo - e l'intera Repubblica Dominicana, con Haiti e dunque il resto delle Americhe - entrasse nell'ottica eurocentrica del globo. Lui, che nel 1492 parte da Palos con Niña, Pinta e Santa Maria per cercare l'oriente viaggiando a occidente, fonda lì la prima città europea del Nuovo Mondo. Nueva Isabela, la chiama. E vorrei ben vedere, dopo i soldi che il navigatore era riuscito a scucire alla regina di Spagna grazie alle sue inclinazioni d’alcova.
Nueva Isabela fu distrutta in fretta, e subito ricostruita con quel nome, Santo Domingo, che le inoculerà per sempre la forza della devozione. E il fascino della menzogna. Fin d'allora nessuno dubitò più «della funzione insostituibile del cattolicesimo come strumento di contenimento sociale delle passioni e degli appetiti devastanti della bestia umana. E, nella Repubblica Dominicana, come forza costitutiva della nazionalità, allo stesso modo della lingua spagnola. Senza la fede cattolica, il paese sarebbe caduto nella disintegrazione e nella barbarie», sostiene Trujillo, dittatore dominicano dagli Anni Trenta al 1961, nel romanzo di Mario Vargas Llosa "La festa del caprone”.

Poi c'è la menzogna, corollario di tutta la missione di Colombo e della sua stessa vita, racconta Alejo Carpentier nel magistrale "L'arpa e l'ombra". Che fa confessare al marinaio in punto di morte di essere diventato un «grande e intrepido imbroglione». «Il mio assillo,» rimugina Colombo, «era proprio riuscire, navigando col sole, a raggiungere i regni dov'era arrivato Marco Polo andando controsole». E per entrare alle corti a reclamar denaro dovette montare un «Teatrino delle meraviglie» che ebbe il suo culmine nella seduzione di Isabella di Castiglia. Ecco come fu raggiunto il Nuovo Mondo. Nemmeno in morte, Cristoforo - Christo-phoros, portatore di Cristo - abbandonò il suo Teatrino. Così oggi, al Faro a Colon, monumentale mausoleo inno all'architettura magniloquente, le guide turistiche dominicane giurano e spergiurano si trovino le spoglie di Colombo, dopo i vari trasferimenti da Valladolid, luogo di morte, a las Cuevas di Siviglia, a Cuba... E invece a santo Domingo potrebbe esserci solo il corpo del fratello. È l'ultimo, beffardo, gioco delle tre carte che Colombo lascia a guisa di secolare eredità, un'aporia che resterà insoluta: con dominicani, spagnoli e finanche italiani a rivendicare il possesso della salma.

Figlia dell'inganno, terra di conquista, Santo Domingo. Da subito. Sbarcati sulla costa, i marinai di Colombo furono accolti con onori e doni dagli indigeni taínos che abitavano l'isola da tre millenni. I coloni, in risposta, si presero e violentarono svariate donne. Dimostrandosi già ai tempi votati alla catalogazione antropologica sistematizzata in seguito nel libro "Viaggio del cittadino Carlo Mantegazza milanese a Santo Domingo nell'anno 1802". Dopo aver elencato quelle che a suo dire erano le «specie di uomini» che «abitano la colonia», oltre alle combinazioni somatiche (tipo: da un uomo bianco e una donna mulatta nascerà un quarteronne; da un bianco e una meticcia uscirà un mamalucco; da un nero e una quarteronne un marabuto...), Mantegazza ne traccia anche le caratteristiche caratteriali. «I mulatti sono di una forma piacevole, e di un acuto ingegno, ma essi sono dominati non meno che il nero dall'indolenza e dall'amore del riposo». E poi: «Il mulatto ama all'eccesso i divertimenti, la danza, e la voluttà». E, per quanto riguarda le donne: «La mulatta è consacrata tutta alla voluttà, e il fuoco di questa Dea arde nel suo cuore per non spegnersi che colla vita». Con tale biglietto da visita, non stupisce che orde di uomini approdino ancor oggi sull'isola con lo scopo precipuo di trovarsi una compagna (diciamo così). E che, per conseguenza, svariate fanciulle ripaghino i dongiovanni della stessa moneta con cui fu liquidato Andreuccio da Perugia nel "Decameron" di Giovanni Boccaccio.

Per secoli, Santo Domingo fu pure meta di corsari. Francesi, inglesi e olandesi che, con regolare "lettera di corsa" firmata dai loro sovrani, solcavano il mar dei Caraibi disposti ad assaltare e derubare i galeoni spagnoli che facevano ritorno in Europa carichi dei tesori del Nuovo Mondo. Corsari che dopo le scorrerie si rifugiavano nei boschi attorno a Santo Domingo, mangiando carne tagliata e arrostita, detta bucan - da qui i bucanieri. «Seccare e affumicare le pelli degli animali uccisi, esprimevasi dai Caribbi col vocabolo di bucan e da questo venne il titolo di bucanieri», delucida Emilio Salgari, nel "Corsaro Nero". Il più famoso fu senz'altro Francis Drake che mise la città a ferro e fuoco nel 1586 e s'insediò nella Catedral Primada de America, che si pavoneggia d'essere la prima chiesa cattolica delle Americhe.«Quindici uomini sulla cassa del morto; ya-ho-ho, e una bottiglia di rum», cantavano i pirati di Robert Stevenson ne "L'Isola del tesoro". «Ogni volta la stessa canzone. Rum e baldoria, schiamazzi e rum, rum e urla, baccano e rum, rum e gioco, botte e rum, tutto nel caos più indescrivibile», aggiunge Björn Larsson in "La vera storia del pirata Long John Silver". E oggi, a imperitura memoria, Santo Domingo offre un tour al rum per turisti bucaneros: Barcelò e Brugal abbinati a sigari e cacao sono orgoglio di Santo Domingo, quanto i fratelli Alou nel baseball, Joan Guzman nella boxe e Jean Luis Guerra nella bachata. Oltre al mare cristallino, claro que sì.
Maurilio Barozzi, L’Adige 5/5/2025

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