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Addio a Gianni Mura, penna raffinata (22/3/2020)

Immagine del redattore: Maurilio BarozziMaurilio Barozzi

Aggiornamento: 16 ago 2023


«Se si esclude la liberazione del canaro, tutto il resto è colpa della stampa». La riporto a memoria. Era l’attacco di un suo articolo per i “Sette giorni di cattivi pensieri”, rubrica che teneva settimanalmente su Repubblica. Gianni Mura aveva cristallizzato, in una frase, sia la polemica seguita alla liberazione del ‘canaro della Magliana’ che quella relativa ai giornali, considerati colpevoli a prescindere fin dalla notte dei tempi. Buona anche: «Buffoni all’Udinese. È una notizia o un commento?»

Ecco, Gianni Mura, scomparso ieri per un infarto a 74 anni, lo ricorderò sempre così, un giornalista capace di cogliere con sarcasmo e compassione - “ironia e pietà”, citando Hemingway - le sfumature dello sport e della società contemporanea e di farlo con precisione fulminea.

La scrittura era il suo habitat, mentre il suo mondo erano il ciclismo e il calcio. Avevano anche provato, qualche anno fa, a portarlo in video per commentare il Giro d’Italia al Processo alla tappa. Ma il risultato non era stato lo stesso. Mura - fuori dalla pagina - snobbava ogni concessione estetica e non aveva il fisico del ruolo televisivo. E forse nemmeno la voce, quasi un brusio che trascina a malavoglia le parole.

Viceversa, si esaltava con le parole stampate, nella sintesi e nel ritmo che avevano sulla carta, capaci di scolpire un’immagine come poteva fare Prassitele cesellando nella pietra i riccioli di Ermete. Per descrivere il volto di Maradona, Mura scrisse: «Facce come la sua propongono finte Lacoste e finte Vuitton a Sanità, con entusiasmo». C’era tutto un mondo, in quella frase. Così come c’era tutto l’amore e la pietà che aveva provato per il ciclista Marco Pantani nella lettera aperta che gli ha scritto a un anno dalla morte: «S’è mai visto prima un corridore pelato e col pizzetto? Quando sei morto, ho scoperto che avevi vinto trentaquattro corse in tutto. Merckx ne vinceva di più in una stagione. Ma era il modo, non il numero».

Già il modo, non il numero. Come le sue sigarette: «Ormai prediligo solo le più importanti: al cesso, dopo il caffè, a fine pasto».

Avevo avuto occasione di conoscere Gianni Mura a margine di un incontro pubblico a Trento, qualche anno fa. La sala era strapiena e tutti rimanemmo ad ascoltare quell’uomo che sembrava uscire da un film western. Ma non Cary Grant, quanto piuttosto un Orson Welles barbuto. Tarchiato, indossava una camicia da boscaiolo sotto la giacca di velluto a coste. Eppure in cattedra quella voce rauca ammaliò tutti con decenni di esperienze e battute salaci, a testimoniare un mestiere che ormai così non si fa più: andare a vedere le cose e poi scriverle il meglio possibile. «Lo capisce anche un somaro che oggi il Tour lo si vede meglio alla televisione», aveva ammesso. Aggiungendo anche: «Io però preferisco essere sul posto: se per caso uno cade e vuoi vedere come sta, almeno puoi andare a trovarlo in ospedale».

Mura, oltre al buon vino e al buon cibo – che spesso trovava anche nel Trentino, terra della sua signora – adorava i giudizi. Espressi in numero, erano il sale dei suoi Cattivi pensieri, il suo modo di dire da che parte stava. Per dire, una volta. «Il voto è 8 per José Bové, da poco uscito di galera, che continua a strappare piante di mais transgenico. E’ successo ieri a nord di Tolosa. Peccato che fossi a Parigi, avrei dato una mano volentieri».

Epperò anche ogni sua riga era un giudizio, un atto d’amore. Espresso ogni volta in modo differente. Una volta al Tour de France cantò così il velocista Petacchi: «Menomale che è nato in Italia. Qui, dopo Poupou e Pinpin, sarebbe già Pépé. E invece è nato in Italia, pepperepé». Fine dell’articolo. Una celia ai francesi degna della Comare Coletta di Palazzeschi. Si dice fosse allievo di Gianni Brera. E senz’altro è così, lo diceva anche lui. Mura però non aveva la causticità di Brera e probabilmente – se li avessi conosciuti entrambi avrei potuto dirlo meglio – era proprio la pietà a far la differenza.

Già, pietà. Mura ne aveva da vendere: andare a trovare un ciclista caduto in ospedale, scrivere un pezzo commosso sulla fine di Pantani, salutare l’addio del calcio di Platini confessando la sua “platinidipendenza” con una citazione di Prevert. La stessa utilizzata anche per il funerale del cantante De André: «Le jardin reste ouvert pour ceux qui l’ont aimé», il giardino resta aperto per quelli a cui è piaciuto. Oggi possiamo dire che quelle parole valgono anche per il giardino di Gianni Mura, custode di un florilegio di articoli felici, capaci di dipingere angoli di storia del giornalismo.


in l'Adige 22/3/2020

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Maurilio Barozzi

mauriliobarozzi@gmail.com

GIORNALISTA, SCRITTORE, SAGGISTA

Tessera professionale n. 056016 (del 11/10/1998)

P. iva IT02736880226

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