Pamplona/2 - Rivoluzionari?
- Maurilio Barozzi
- 24 giu 2019
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 1 giorno fa

PAMPLONA, lug. 2003 (SECONDA PUNTATA) –
Dopo una bell’ammollo, faccio una doccia e mi rado. Poi nel tardo pomeriggio con Esteban riprendiamo la macchina e filiamo giù, di nuovo verso Pamplona. Il sole è ormai una palla rosso fuoco e conferisce un aspetto poetico anche alla striscia d'asfalto sfatto che fende i pascoli in fase di viraggio. Viste adesso, le pietre delle case di Pamplona sono dorate. La luce morbida avvolge tutto in colori vibranti: una tonalità senza ombre dure che, anche da distante, fa risaltare particolari insospettati alla mercé del chiaroscuro violento di mezzogiorno. La città sembra davvero adagiata e rilassata, nel tenue bagliore del crepuscolo. Persino bella.
Parcheggiamo e torniamo nel quartiere euskero. Trabocca di turisti: giovani, anziani donne, uomini, ricchi, poveri, scappati di casa, squatter, tossici, beoni e, naturalmente, curiosi d’ogni foggia.
Un paradiso sognante, ovattato dall'alcol e dall’hashish. Mi muovo meglio sull'alcol. La birra costa poco. Nei supermercati, che da oggi fino al 14 luglio staranno aperti 24 ore, un litro di birra San Miguel costa 0,80 euro. Ce ne compriamo un paio di bottiglie e beviamo seduti per terra vicino a un gruppo di hippy che si passano una canna. Esteban smania, glielo leggo negli occhi. Poi lo dice chiaro, mescendo il tutto con una certa filosofia sulle esperienze da fare, la conoscenza, i mondi paralleli e tutto un filotto di vaccate.
«Dovevi venire fino a Pamplona per metterti a far prediche?», gli dico.
Mi guarda e fa: «Vado predicando. Embè?».
A quel punto cosa puoi ribattere?
Alle undici è buio strafatto. Come ci aveva annunciato la Maritrini, inizia la manifestazione contro il sindaco. Pardon, LA sindaco.
Tutti iniziano a fischiare senza ritmo. Battono con legni contro i cassonetti; scuotono e picchiano le inferriate dei negozi. Due corrono con una sirena in mano. La fanno ululare collegandola alla corrente dei bar. Si spostano di continuo: un minuto qua, poi filano di là, poi in un altro posto ancora…
Lo dico: quella sirena mi scassa la minchia. Assieme allo sferragliare dei cancelli e al rimbombo dei bidoni, evapora anche odore di piscio. Fa caldo, sudo, ho la camicia fradicia sulla schiena e sotto le ascelle. Situazione insopportabile.
Lì a fianco vedo il bar Etxia e decido di entrare a bere in santa pace.
Oddio, in santa pace… È strapieno anche dentro ma almeno le sirene sono un po’ attutite. Chiedo della birra in spagnolo castigliano e il tipo che serve finge di non capirmi. Vorrebbe solo clienti che parlano euskera, la lingua basca. E chi cazzo sa come si dice birra in euskera?
Paziento.
Richiedo la cerveja.
Niente.
Allora mi va il sangue alla testa.
«Hijo de puta, vediamo se questo, in castigliano, lo capisci, eh? E questo, in italiano, brutto rincoglionito… Ma guardati, con quella faccia da idiota che cazzo di rivoluzione vuoi fare, eh? Spini birre a chi ti paga tutto l'anno, muto come un pesce, ecco la tua rivoluzione: servo! E oggi, perché in questa topaia ti entrano due persone più del solito ti permetti anche di fare l’autonomista? Ma vaffanculo. RIVOLUZIONARIO-DEI-MIEI-COGLIONI. Non sai neanche chi sia, tu, il dottor Ernesto Che Guevara. Puah».
Esteban mi salva portandomi via, mentre il barista accenna un sorriso come dire che ha capito, ma che continua a far finta di non capire. Non so come spiegare, queste cose mi mandano in bestia.
Con la sua solita flemma, Esteban dice che il barista ha ragione, che l’euskera è la sua lingua, è antica, che non deve annacquare le origini e tutte quelle cazzate lì. Ovvio che non è il momento di farmi un pistolotto, questo. Per di più l’alcol e il caldo cominciano a picchiare in testa: «Razza di traditore, stai con lui adesso? Altro che Esteban, d'ora in poi ti chiamerò Etxia, come il bar. Così non mi scordo il nome». Ma lui è contento uguale, adora queste cose che sanno di rivoluzione. Anche se alla fine siamo rimasti a becco asciutto.
Molliamo tutto e torniamo a casa per riposarci un po’, in vista della Fiesta. Che, udite udite, non è ancora cominciata. A Larrasoaña è fresco e silenzioso: sembra impossibile che a soli quindici chilometri ci sia un delirio infernale.
A casa ci sediamo in veranda osservando i boschi bui. I signori Ventura e Pilar ci offrono un bicchierino di Pacharán, il liquore ai prugnoli tipico navarro. Dicono «Osasuna», che sta per «Salute», ma è anche la squadra di calcio di Pamplona. «Osasuna». E bevo.
2. CONTINUA
Pamplona, luglio 2003
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