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Pamplona/2 - Rivoluzionari?

Aggiornamento: 8 nov 2021


PAMPLONA, lug. 2003 (SECONDA PUNTATA) – Dopo una nuotata rinfrescante nella bella piscina di Larrasoaña, faccio una doccia e mi rado. Poi con Esteban prendiamo la macchina e filiamo giù, di nuovo verso Pamplona.

Il sole è ormai una palla rosso fuoco e conferisce un aspetto poetico anche alla strada d'asfalto sfatto che fende i pascoli in fase di viraggio. Viste adesso, le pareti delle case di Pamplona sono dorate. La luce morbida avvolge tutto in colori vibranti, una tonalità senza ombre dure che, anche da distante, fa risaltare particolari insospettati alla mercé del chiaroscuro violento di mezzogiorno. La città sembra davvero adagiata e rilassata, nel tenue bagliore del crepuscolo. Quasi bella.

Parcheggiamo e torniamo nel quartiere euskero. È pieno di gay, squatter, tossici, e naturalmente di turisti. Un paradiso sognante, ovattato dall'alcol e dall'hashish. Nei supermercati, che da oggi staranno aperti 24 ore, un litro di San Miguel costa 80 centesimi. Ce ne compriamo un po' e beviamo seduti per terra vicino a un gruppo di hippy che si passano una canna. Esteban smania, glielo leggo negli occhi. Poi lo dice chiaro, mescendo il tutto con una certa filosofia sulle esperienze da fare, la conoscenza, i mondi paralleli e tutto un filotto di vaccate.

«Sai cos'è? È che non capisci un cazzo di niente e però continui a far prediche», gli dico.

Mi guarda e fa: «Vado predicando. Embè?».

A quel punto cosa puoi ribattere?

Alle undici è buio strafatto. Come ci aveva detto la Maritrini, inizia una manifestazione contro il sindaco. Pardon, LA sindaco. Tutti iniziano a fischiare senza ritmo. Battono con legni contro i cassonetti; scuotono e picchiano le inferriate dei negozi. Due corrono con una sirena in mano. La fanno ululare collegandola alla corrente dei bar. Si spostano di continuo: un minuto qua, poi filano di là, poi in un altro posto ancora…

Lo dico: quella sirena è sfibrante. Assieme allo sferragliare dei cancelli e al rimbombo dei bidoni, evapora anche odore di piscio. Fa caldo, sudo, ho la camicia fradicia sulla schiena e sotto le ascelle. Situazione insopportabile. Così vado a rintanarmi nel bar Etxia, lì a fianco.

Chiedo della birra in spagnolo castigliano e il tipo che serve finge di non capirmi. Vorrebbe solo clienti che parlano euskera.

Paziento.

Gliela richiedo.

Niente.

Allora mi va il sangue alla testa.

«Hijo de puta, vediamo se questo, in castigliano, lo capisci, eh? E questo, in italiano, brutta testa di cazzo… Ma guardati, con quella faccia da idiota che cazzo di rivoluzione vuoi fare, eh? Spini birre a chi ti paga tutto l'anno, muto come un pesce, ecco la tua rivoluzione, servo! E oggi, perché in questa topaia ti entrano due persone di più ti permetti anche di fare il figo? Ma vaffanculo. RIVOLUZIONARIO-DEI-MIEI-COGLIONI. Non sai neanche chi sia, tu, il dottor Ernesto Che Guevara. Puah».

Esteban mi salva portandomi via, mentre il barista accenna un sorriso come dire che ha capito, ma che continua a far finta di non capire. Non so come spiegare, queste cose mi mandano in bestia anche se ormai dovrei saperlo: in nessun angolo del mondo esiste modo di farsi servire da un barista a cui stai sulle palle. Con la sua solita flemma, Esteban dice che hanno ragione, che è la loro lingua, che non devono annacquare le loro origini e tutte quelle cazzate lì. Ovvio che a me non me ne frega un tubo, non è certo il momento di farmi un pistolotto, questo. Eppoi Pamplona si è inventata basca adesso, visto che fino a qualche anno fa non c'era nessuno che parlava euskera. «D'ora in poi ti chiamerò Etxia, come il bar. Così non mi scordo il nome», dico a Esteban. Ma lui è contento uguale, adora queste cose che sanno di rivoluzione. Anche se alla fine siamo rimasti a becco asciutto.

Sera tardi torniamo a Larrasoaña. Lassù, tra pini e erba tagliata, è silenzioso e fresco. Ci sediamo in veranda coi signori Ventura e Pilar. Ci offrono un bicchierino di Pacharan, il liquore tipico navarro. Dicono «Osasuna», che sta per «Salute», ma è anche la squadra di calcio di Pamplona. «Osasuna» e bevo. Ormai l'incazzatura mi è passata.

2. CONTINUA


Pamplona, luglio 2003


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