CAMAGÜEY – Quando, verso le sette di sera, sparisce la luce, sono al bar El Cambio. Il titolare mi guarda e fa: «Normale, è sempre così, a quest’ora. Basta aspettare, poi torna». «Ah, andiamo bene», dico io, in italiano. Lui non capisce ma sorride. Resta seduto vicino alla cassa per un’ora e mezza. Quando passa un’auto è illuminato dai fari: è lì tranquillo, sorridente. Perché preoccuparsi? Ha ragione lui: poi tornerà.
Mi metto a guardare fuori, nella piazza e nel buio quasi fatto si distingue la silhouette di Agramonte a cavallo con un grande cappello e la spada in resta. «All’attacco!», pare gridare. E’ il possidente che a metà Ottocento liberò i suoi schiavi e diede inizio alla lotta cubana per l’indipendenza dalla Spagna.
Già da Camagüey si capisce che in quest’isola tutto trasuda di lotta e di eroismo. Statue, frasi celebri, personaggi che battezzano le vie. Sono il collante storico per una rivoluzione che, nonostante tutto, ancora oggi vive. Che la distingue dagli Stati Uniti e dal resto del mondo. Che la rende meno permeabile agli uniformanti schemi dalla globalizzazione, quasi galleggiasse incurante di tutto sulle azzurrissime acque dei Caraibi. «Cuba nel suo atlante naviga:/ un lungo ramarro verde/ con occhi di pietra e acqua», scrisse Nicolás Guillen, nato proprio a Camagüey nel 1952.
Al bar El Cambio sto aspettando che giunga l’ora per andare alla stazione dei treni. Alle undici di sera ho il treno per l’Avana. Ma nel pomeriggio, quando ho fatto il biglietto, mi hanno spiegato che dovrò essere lì due ore prima. «Per far che?», ho chiesto. «Per aspettare», mi hanno risposto. Urka, non è che abbia molta voglia di oziare due ore alla stazione ma, ancora una volta, non c'è nulla da fare. Aspetterò. Nel frattempo due poliziotti mi hanno chiesto il passaporto, mi hanno fatto accomodare in uno sgabuzzino pieno di libroni dall’antico odore di scartoffie e inchiostro, hanno scritto tutti i miei dati a mano su un grosso registro. Poi mi hanno augurato buon viaggio. «¡Gracias!».
Ho ancora un paio d’ore di attesa, le inganno tracannando birra Cristal in lattina. Giovanotti che guidano risciò entrano a turno al bar, bevono qualche cosa e mi chiedono se serve una guida. Dico di no. Che ho già visto la città, che mi piacciono molto le sue viuzze strette e gli edifici coloniali, ma che sto andando a l’Avana. Insistono, cercando di farsi offrire qualche birretta, e un paio ce la fanno anche. Poi da uno, Rodolfo, che incredibilmente non beve niente, mi faccio accompagnare in stazione. Trasecolo quando mi dice che non vuole soldi. «Rodolfo, sei un grande!». E gli metto comunque in mano due euro: in fin dei conti mi ha portato con la sua bicicalesse fino alla stazione, in salita su un acciottolato che io non riuscirei neanche a pedalare da solo.
Ferrovia, sala d’attesa con tanto di sbarre che non permettono scambi tra viaggiatori e spettatori: c’è una folla incredibile che sta lì a guardare la gente che parte. L’altoparlante annuncia che il treno especial per l’Avana è in ritardo di due ore. Poi, invece, le ore di ritardo diventano il doppio. Si parte alle quattro del mattino, finalmente. In un treno con l’aria condizionata che fa precipitare la temperatura dai venticinque gradi esterni a sedici, passo la notte a massaggiarmi le gambe e le braccia. E a invidiare orrendamente le coperte che gli altri passeggeri si erano portati dietro. Eh, l’esperienza.
L’AVANA – Arrivo verso le undici del mattino. Ha piovuto ma fa caldo. E grazie al cielo le ossa intirizzite dal viaggio in treno mi si riscaldano. Passeggio un po’ senza meta, tra i «psssttt psssttt» dei ragazzi che insistentemente mi chiedono se sono italiano e tutto un filotto di puttanate che hanno come scopo reale quello di scroccare bevute o un paio di euro. Il sole a picco abbacina la città rendendo i colori violenti: bianco, azzurro, giallo. Ci sono centinaia di case ridotte allo scheletro con le travi di sostegno in vista e i pavimenti sventrati, montati sopra fangaie. L’acquazzone del mattino ha lasciato lungo le pavimentazioni rotte pozzanghere d’acqua che adesso è immota e puzza di marcio. Ma non è l’ora giusta, questa, per descrivere una città. Meglio i colori vibranti, dorati del tramonto. Un tramonto che «vanitoso,/ come un’attrice avanti con gli anni/ che si facesse ammirare da uno studente,/ si imbellettava e ardeva per noi,/ sperperava cataratte ignee, esagerava,/ non sapeva che fare per sedurci», scrive la poetessa Fina García Marruz cantando l’Avana. Così, nell’attesa, vado a bere un Daiquiri al Floridita. Dovrò pur passare il tempo, no? «Il mio Mojito al Bodeguita, il mio Daiquiri al Floridita», si racconta dicesse Hemingway. E al Floridita, un bar con vecchi camerieri in elegante abito rosso amaranto, c’è il suo posto, in fondo al bancone, ancora riservato. Assieme al Daiquiri mi servono una coppa di mariquitas, rondelle di banane fritte. Conto: sei euro. Alla faccia della rivoluzione.
Lungo la via Zanja, vicino al quartiere cinese, trovo una casa particular (una famiglia che concede una stanza nel suo appartamento). Mi fanno dormire lì per venticinque euro a notte. Butto la sacca e mi avvio di nuovo verso il centro. Nella strada c’è odore di carne secca, cipolla e caramello mischiati assieme. In una bancarella compro un dolce di mais, majarete, e vagabondo con quello in mano. Sull’ingresso di una scuola, la scritta gigante: «Creemos en la revolucion» e poco in là una lunga fila di persone che fanno la fila. M’informo. È il razionamento di cibo al quale si ha diritto con la tessera annonaria. Tiro dritto, tanto non la ho. Mano a mano che mi avvicino al centro i «pssttt pssttt, italiano?», «psst psst, servono sigari?», «psst psst, italiano, vuoi una ragazza?» diventano sempre più insistenti. Che palle! Ma ce l’ho scritto in fronte che sono italiano?
Vicino al Campidoglio dal cupolone enorme, ci sono gruppetti di taxisti sfaccendati. Chiacchierano appoggiando le mani sul cofano delle loro Cadillac o Pontiac grondanti fascino d’epoca. Purtroppo quando sono messe in moto sferragliano e spurgano luride scie di fumo nero e denso.
A piedi, arrivo al moresco hotel Sevilla. Un ragazzino mi dice che è pericoloso quell'hotel, che se proprio voglio entrare è meglio che mi accompagni lui altrimenti… Ora ne ho proprio le tasche piene. «Giovanotto, vattene affanculo».
Come racconta Graham Green ne Il nostro agente a l’Avana, mi faccio strada «nella penombra del bar del Sevilla-Biltmore. Gli altri clienti si intravedevano appena; sembravano paracadutisti accucciati in silenzio nell’ombra, in malinconica attesa del segnale di lancio». Ma, a differenza, il bar è completamente vuoto, luminoso e l’atrio enorme con i soffitti altissimi e mosaici azzurri alle pareti, sembra quasi un museo, più che una hall. Altro che pericoloso: se fuori ripesco quel ragazzotto... Bevo una birra. Sottobicchiere. Noccioline in coppe d'argento. Bene! Pago al cameriere in livrea e esco.
Verso le sei, l’Avana è proprio quella descritta in modo ridondante dal famoso scrittore cubano Alejo Carpentier: «Simile, in quest’ora di riverberi e ombre lunghe, a un gigantesco lampadario barocco, i cui cristalli verdi, rossi, aranciati, colorassero una confusa roccaglia di balconi, arcate cupole, belvederi e verande con persiane. […] Era un abitato eternamente in preda all’aria che lo penetrava, sitibondo di brezze di mare e venti di terra, aperto in pusterle, imposte, battenti, nicchie, al primo alito fresco che passasse». Del resto: non si può descrivere l’Avana senza essere ridondanti.
La sera cena in un locale vicino alla splendida Cattedrale, poi filo alla Bodeguita del Medio, altro locale reso storico da Hemingway. Dopo aver messo la firma sul muro come fanno tutti (per dire, c'è qui anche la firma di Jovanotti) mi metto a chiacchierare con un barista. Arriva un ragazzo sui venticinque anni. Nero, indossa una camicia bianca, elegante e abiti occidentali. Parla italiano meglio di me. Però attacca un pistolotto ormai già sentito in tutte le salse: che lì non hanno niente, tranne spacciatori e camerieri degli alberghi di lusso; che non sono liberi di dire ciò che pensano perché altrimenti finiscono in cella; che sono sempre controllati dai piedipiatti. Tutto vero, ma lo hanno già spiegato al mondo espatriati e scrittori. Allora tira fuori un giornale spiegazzato dalla tasca dei pantaloni e mi dice che è l'unico che si può trovare e mi mostra che parla solo di Castro. Sono le undici di sera e che lui abbia ancora il giornale in tasca mi insospettisce un po': vuoi vedere che tutto il monologo è preparato ad arte? Poi allude al fatto che vorrebbe andare a lavorare in Italia, per guadagnare. Gli faccio presente che un operaio prende meno di mille euro al mese e che un affitto ne costa almeno la metà. Lui risponde che sta studiando da avvocato. A beh, allora... A quel punto, ancora le mani in tasca e caccia fuori la foto di una ragazza vestita tutta di bianco e un bimbetto di un paio d'anni. Mia moglie e mio figlio, dice. Uhmm... Faccio: «Vestita così sembra più una suora». Lui sorride alla battuta, poi mi spiega che è il costume da adepta alla santeria, la religione sincretica di Cuba. Mi rovescia addosso ancora due o tre informazioni ma io ne ho abbastanza. Se devo star lì a chiacchierare, a essere sinceri, preferisco una bella cubana. Lui mi chiede se può vendermi dei sigari. Gli dico di no. Fa: «Per mantenere mio figlio». Ci risiamo. Ripeto il mio no. Poi insiste ancora e allora me ne vado io. A casa.
La mattina dopo mi sveglio presto: voglio andare sul Malecón a vedere il mare, i pescatori, respirare l'aria salmastra che, assieme alla povertà, consuma i palazzi della città. Alle otto del mattino è quasi deserto: poche auto, poca gente, pochi pescatori. Proprio come scriveva Hemingway in Avere non avere. Mi chiedono di dove sono. Dico: «Italia, del nord». Uno fa: «Milano o Torino?». Per loro al nord esistono solo Milano e Torino. Ma vorrei vedere quanti italiani saprebbero dire due o tre città del nord di Cuba.
Sto lì così, a non fare niente, un paio d'ore. Seduto su un muretto con le gambe a ciondoloni, a guardare il mare. Poi prendo un taxi e filo verso la stazione della Viazul, la linea di autobus di prima categoria cubana. Destinazione: Trinidad, la Firenze di Cuba.
TRINIDAD - Scendo dalla corriera alle 18.45. E' notte fatta. Ho viaggiato quasi sei ore con tre soste di una decina di minuti l'una. E' bello muoversi con questi autobus. Ci metti un attimo a fare il biglietto, ogni due ore di marcia fanno una sosta ai bar e su c'è la televisione che dà film o documentari. Scendo e sono letteralmente preso d'assalto da un gruppo di ragazzi, uomini, donne che cercano di rifilarmi un posto nella loro casa particular. Mi sembra di essere un calciatore famoso a cui il pubblico chieda l'autografo. Ma non sono un calciatore. E tanto meno famoso. Per me tutto questo è solo una scocciatura. Comunque: scelgo uno a occhio che porge un biglietto da visita con la foto e offre la camera a dieci euro: «Ma solo se ti piace, altrimenti non paghi». Ok, vediamo.
Lui si chiama Alexander, mi presenta suo fratello e la moglie del fratello. Offrono vino cubano versandolo da una bottiglia anonima. Spiegano che lo fanno loro. E' piuttosto forte, marsalato. Mi mostra il bagno e poi la stanza: va bene, è pulita. La prendo. Propone una cena per sei euro: pesce pargo (cernia), gamberetti, fagioli, riso, verdura e acqua o vino. Se voglio birra un euro in più. Per la colazione sono altri tre euro (banane, nippero, succo di pompelmo, caffè, latte, burro, uovo). Poi, come sempre, precisa: «Se non ti piace non paghi». D'accordo. E' un buon tipo. Anche se un po' rompiballe: durante la cena mi presenta anche moglie e figlia e alla fine mi mostrano le foto del matrimonio. Due album! Poi attacca anche lui la storia dei sigari: li rubano dalle fabbriche e li vendono di nascosto. Vabbé, mollamene una scatola.
Il giorno dopo: la città. Molto giallo, architettura coloniale e pavimentata con un acciottolato irregolare. Tutto attorno montagne di un verde scintillante. Incrocio gente su carri, ragazze che proseguono per la loro strada senza rivolgermi sguardi o richiami come a l'Avana, e un bambino con una scrofa al guinzaglio... Un momento! Una scrofa?? Mi stropiccio gli occhi, ma è tutto vero.
Per rifugiarmi dal caldo, entro al museo nazionale della lotta contro i banditi. Racconta dei controrivoluzionari che negli anni dell’operazione alla Baia dei Porci si rifugiarono lì, sulla sierra dell’Escambray e poi vennero sconfitti. Foto in bianco e nero, armi d'epoca. Un anziano mi fa da cicerone e quasi gli vengono le lacrime agli occhi, raccontandomi di aver preso parte a diverse azioni per scovare quei banditi (i controrivoluzionari). Può darsi che siano tutte balle e lui un attore consumato. Sta di fatto che l’orgoglio di essere dalla parte di Castro e della rivoluzione c’è tutto. Comincio a rendermi conto di cosa significhi per un Paese essere attaccato ai propri simboli. E qui a Cuba quei simboli sono, in ordine sparso: Camilo Cienfuegos, Antonio Macheo, José Martí, Carlos Manuel de Céspedes, Maximo Gómez, ovviamente Che Guevara e altri. Dappertutto ci sono le loro effigi, monumenti e ricordi. Sono tutti eroi dell'indipendenza cubana dalla Spagna, dagli Stati uniti, o protagonisti della rivoluzione contro Batista.
Gli anziani raccontano fieri. Fieri anche di Fidel castro. I giovani, invece, preferiscono elemosinare. Chiedono soldi, penne, caramelle, uno addirittura l'orologio. Di Fidel Castro non si fidano, non gli piace. Vogliono poter avere qualche cosa: di idee rivoluzionarie, simboli, miti, musei se ne fregano.
Chiudo la giornata al Canchanchera, un locale carino con sedie-poltrona in legno scuro. Anche lì a un certo punto sparisce la luce. Così vado alla casa della musica a fumare uno di quei sigari Montecristo che ho comperato da Alexander. Suonano dal vivo e a ballare ci sono vecchi e giovani. E’ la musica, penso, che tiene ancora unite le generazioni. Così diverse, per il resto.
SANTIAGO DE CUBA – A fare il tratto Trinidad-Santiago, in autobus, ci vuole tutta la giornata. Guardo dal finestrino: gente a piedi, in bicicletta, qualche carro, trattori che trasportano dieci, quindici persone: uomini, donne, bambini. E poi i cartelli di orgoglio nazionale: «No hay fuerza capaz de aplastar nuestra resistencia» (non c’è forza in grado di schiacciare la nostra resistenza); oppure: «Morir por la Patria es vivir», bah...
Passeggiando, la notte, la prima cosa che mi viene in mente sono le frasi di Green che descrivono le grate di ferro. E’ vero, qui a Santiago moltissime finestre hanno fitte grate di ferro scure. Infondono inquietudine. E per strada, nella luce fioca, ciò che si distingue degli uomini, quasi tutti neri, sono i denti e il bianco scintillante degli occhi. Okay, bevo una birretta e poi vado a cercarmi una stanza.
Il giorno dopo a spasso nel sole caldo di quella città del sud. Per i soliti scocciatori invento un trucco. Dico che sono polacco e la cosa pare funzionare: spariscono all'istante. Uno solo mi guarda stralunato e fa: «Est Europa?». Dico: «Yes». Scrolla il capo sotto i suoi capelli rasta, e se ne va. Che dritto che sono!
Ora c’è da andare a vedere la Moncada, la caserma dove Fidel Castro effettuò il primo attacco al potere di Batista. Un attacco fallito. E' pieno di buchi che sembra una gruviera, tutti proiettili a testimonianza di quell'assalto. Ma un ragazzo mi dice che i proiettili siano stati sparati dopo, a bella posta.
Al bar Enramadas un giovanotto insiste per farmi un ritratto: …azz, non ha bevuto la storia della Polonia, altro che dritto. Gli offro una birra purché non mi rompa più con la faccenda del ritratto. Dice che suo padre fa l'insegnante. Parla di Carpentier e sostiene che sia il più grande scrittore dell’isola. A proposito di libri: lo mollo e vado all'Hotel Casa Grande, affacciato su piazza De Cespedes. Green lo definì «un covo di spie e di informatori della polizia». Invece oggi nel bar ci sono solo turisti tedeschi e un paio di loro, vecchi, accompagnati da giovani jineteras (prostitute). Giovani, molto giovani. Non so, mi scoccerebbe passare per bacchettone, ma fa un certo effetto vedere un settantenne bianco che si sbaciucchia con una moretta che ne avrà sedici. Un effetto che somiglia vagamente allo schifo. Mah...
Il museo Bacardí è stato fondato dall’omonimo primo sindaco di Santiago, anche se è rimasto molto più noto per il rum. Oltre ai dipinti, vi si possono ammirare anche testimonianze delle guerre d’indipendenza e armi. All’ingresso c’è una tavola con una scritta che sintetizza un po’ la filosofia che spinse questo filantropo a fare qualche cosa per la sua terra, senza pretendere in cambio nulla. E sintetizza anche le sensazioni che gli anziani provano quando parlano della rivoluzione: «Fare la patria costantemente è il dovere dei giovani; rinnovare in ogni momento il ricordo di coloro che sono stati i nostri gloriosi precursori è ciò che nessuno deve dimenticare mai». Firmato: Emilio Bacardí, 1921.
Nel rientrare alla mia stanza mi fermo sulla calle Heredia. Al 256, dove sta la libreria “La Escalera” di Eddy Tamayo, specialista nella vendita di libri vecchi, dice il biglietto da visita. Lì trovo “Concierto Barroco”, un libro di Carpentier che cerco in italiano da tempo. Usato, vuole venderlo a quindici euro. Ne offro cinque. Lui dice: «Facciamo sette: cinque per il libro, uno per la rivoluzione, uno per Fidel Castro». «Facciamo sei e buonanotte a Castro». Ride, dice okay e tira fuori birra in una bottiglia di plastica da litro e mezzo. Ne versa anche per me. Mi chiede quanto costa una macchina in Italia. Un'utilitaria. Gli dico che siamo sui nove, dieci mila euro. Si mette a ridere. Sbuca un suo compare e gli spiega la storia. Ride anche l’altro. Ma l’aveva raccontata male perché ha parlato di 2.500 euro. Glielo faccio notare. Preciso: DIECIMILA euro. Ridono ancora di più. Continuano a versare birra. Mi spiegano che è quella che si compra nei negozi che vendono solo ai cubani, in pesos. Tutta la bottiglia costa un quarto di euro. Non è proprio ottima, anzi, diciamo pure che fa schifo. Gli dico che in Italia una bottiglietta di birra, al bar, costa tre, quattro euro. E loro giù a ridere. Ma le più grosse risate se le fanno quando vengono a sapere che in Italia si lavora otto ore al giorno e molti hanno due lavori, per cui qualcuno di ore se ne fa anche quindici. Lì hanno proprio riso tanto. Mi pare che al di là dei simboli, sia proprio quella risata a marcare la differenza tra noi e loro. Loro lavorano per vivere, noi viceversa. D'accordo, è un luogo comune, fate finta che non l’abbia scritto. Hanno versato ancora da bere e poi, indicando una foto del Che, quello più vecchio ha detto: «Viva la revolución».
(Maurilio Barozzi - Panorama Travel, Novembre 2006)
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