Isabella Santacroce irrompe nel panorama letterario italiano verso la fine degli anni Novanta. Il suo è un ingresso in grande stile proprio per via del suo stile che mischia slang con termini inglesi, metafore musicali e pennellate di contemporaneità. Tale incedere alimenta un ritmo che non è del tutto inedito: ricorda il Burgess di Arancia meccanica, di cui ricalca gli spasmi generazionali. Tuttavia le sue frasi sono coraggiosi tuffi nello straniamento retorico. Carpiati da capogiro.
Ai tempi fu inserita in quel gruppo di giovani scrittori che prendeva a colpi di piccone la status quo e il consumismo (ancora agli albori, oggi possiamo dirlo) e che erano detti “cannibali”. Ne facevano parte Aldo Nove, Tiziano Scarpa, per certi versi Paolo Nori e senz’altro lei.
Santacroce ha messo in pagina il suo personale disagio e quello di una generazione poco incline al compromesso. In “Fluo”, il suo esordio uscito nel 1995, racconta l’estate a Riccione di una ragazzina ribelle alle prese con i suoi diciott’anni e genitori troppo impegnati a intercedere alle proprie dubbiamente sane pulsioni. Così lei, in un appartamento in comune con degli amici, si butta a capofitto nella notte della riviera Adriatica e offre uno spaccato delle scorribande adolescenziali. Soprattutto: un punto di vista urticante, specie per chi è in età da pensione e quando va al mare si fa vedere «sbattersi in esercizi ginnici incredibili, roteare le gambe, sforbiciarle, rizzarsi seduti, ributtarsi giù, roteare la testa, alzarsi e fare corsette sul posto, perdersi in piegamenti, correre sotto la doccia, mettere il culo rasente all’onda e battere i piedi».
Lei no. Pallida e truccatissima, una lolita inquieta, preferisce drink e provocazioni sexy. Tutto però si ferma di colpo quando, il 30 agosto, la morte fa capolino nell’esistenza della protagonista squarciando i decibel della discoteca e ammutolendo il ritmo della notte.
«Voglio che il mio cuore batta sempre - conclude la lolita/Santacroce - e voglio la vita addosso, il cielo sopra, la sabbia sotto e l’amore sempre tra le mani come un gelato al limone mangiato in riva al mare in un pomeriggio di maggio quando il più bello sta per cominciare e continuare come prima, così veloce e così immortale».
Isabella Santacroce, “Fluo”, Feltrinelli 2006.
(L'Adige 28/8/2023)
Maurilio Barozzi
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