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La bellezza struggente di Istanbul (6/5/2024 - l'Adige)


Fin dai secoli dei secoli, Istanbul giace in bilico tra Levante e Ponente. Il Bosforo è la cicatrice che separa i due mondi. Il primo a suturarla fu il re persiano Dario. Ai tempi, nel 513 a.C., fece costruire un ponte per transitare dalla sua Persia (Calcedonia) verso Bisanzio e la Tracia così da dar la caccia agli sciti accasati sulle rive del mar Nero. Lo racconta Erodoto nelle “Storie”: «Dario inviava messi; per imporre agli uni di fornire un esercito terrestre, agli altri una flotta, agli altri di gettare un ponte sul Bosforo tracio». Quello era un ponte fatto di barche una affianco l’altra. Oggi – dal 2016 – le due sponde sono collegate da tre ponti e anche dall’Eurasia tunnel, il nuovo, sfavillante, simbolo dell’odierna Istanbul. Un passaggio che, scorrendo sotto le acque del Bosforo, permette di attraversarlo in pochi minuti, immersi in un passaggio cieco. È il trionfo della velocità e dell’urgenza. È, probabilmente, il vero segno di una città che vuole cambiare dopo migliaia di anni di storia che l’hanno trasformata da Bisanzio a Costantinopoli e infine a Istanbul senza mai mutarla davvero.


Le descrizioni di chi arriva e vede sono la prima eredità che resta dalle narrazioni di Istanbul. Così Edmondo de Amicis, giungendovi dallo stretto dei Dardanelli, in “Costantinopoli” descrive l’approdo: «Uno sbarbaglio di colori, un rigoglio di verde, una fuga di vedute, una grandezza, una delizia, una grazia da far prorompere in esclamazioni insensate. Sul bastimento tutti erano a bocca aperta: viaggiatori, marinai, turchi, europei, bambini. Non si sentiva uno zitto. Non si sapeva più da che parte guardare. Avevamo da una parte Scutari e Kadi-Kioi; dall’altra la collina del Serraglio; in faccia Galata, Pera, il Bosforo». E Pierre Loti, nel medesimo periodo, tornandovi invece dal mar Nero (in “Fantasma d’oriente”) aggiunge il suo tocco misterioso: «Ecco già i padiglioni imperiali e i grandi harem, poi la fila dei palazzi bianchi con le terrazze di marmo, e finalmente, là, in fondo in alto, uscire d’un tratto dalla nebbia che si squarcia il profilo incomparabile di Stambul».


La prima volta che viaggiai a Istanbul, ancora nel precedente millennio, per contemplare lo spettacolo del triangolo d’acqua formato dal Corno d’oro, il Bosforo e il mar di Marmara, salii a piedi alla collina di Eyüp. A colpirmi fu il tragitto, gran parte percorso in mezzo a un cimitero dove molte tombe portavano date inverosimili. Mi soffermai su un tizio nato nel 1317 e morto nel 1973. Giunto in cima, entrai al Café Pierre Loti e domandai informazioni su quel morto che aveva 659 anni al barista, accoccolato su una panca in legno in attesa del tramonto che sanciva la sosta del ramadan. Egli si sollevò e, sorridendo alla mia ingenuità, mi spiegò che solo nel 1926 il presidente Kemal Atatürk aveva introdotto il calendario gregoriano (cioè quello che usiamo abitualmente in occidente), al posto di quello musulmano che ha come anno uno l’egira di Maometto. Sicché, sulla tomba, molti avevano la data di nascita nel sistema ottomano e quella di morte in quello gregoriano. E calcolò che il 1317 in realtà corrispondeva al 1899. «Quel tizio è morto a 74 anni», concluse.


Del cimitero di Eyüp parla anche lo scrittore premio Nobel Orhan Pamuk nel suo “Istanbul”. Citando uno dei libri della sua infanzia “Da Osman Gazi ad Atatürk. Il panorama di seicento anni di storia ottomana” di Resat Ekrem Koçu, Pamuk racconta: «C’era scritto che a Eyüp, sul pendio di Karyagdı, avevano costruito un cimitero per i boia, perché i nostri “padri” pensavano che, uccidendo in cambio di denaro, non fossero degni di essere sepolti con gli altri uomini». Ecco dov’ero passato!


Istanbul non è solo un crocevia sull’asse Oriente-Occidente. Oggi la direttrice verso nord è un po’ raffreddata dalla guerra in Ucraina, ma fino a poco tempo fa le facoltose signore di Russia scendevano a Istanbul per acquistare abiti a buon mercato nel quartiere di Laleli o al Gran Bazar per poi rivenderli nelle boutique di Mosca o San Pietroburgo: un traffico chiamato “delle valigie”.


Per tratteggiare alcuni quartieri di Istanbul, Pamuk retrocede fino al 1843, al “Viaggio in Oriente” del poeta francese Gérard de Nerval. Nerval racconta la passeggiata da Galata a Taksim lungo la via che oggi si chiama Istiklal e che all’epoca si chiamava Grande rue de Péra. La descrizione di Nerval potrebbe valere anche per oggi: «Superata la loggia dei dervisci Mevlevi, si ritrova in un viale simile a quelli di Parigi: abiti alla moda, negozi di biancheria intima, gioiellerie, splendide vetrine, confetterie, alberghi inglesi e francesi, caffè e ambasciate». Non è un caso che lì, spiega il romanziere Théophile Gautier, «si parlava contemporaneamente il turco, il greco, l’armeno, l’italiano, il francese e l’inglese (e doveva aggiungere il ladino, prima del francese e dell’inglese)».


Perennemente indecisa, Istanbul ondeggia. Talvolta si sveglia rivolta alla Mecca. Talaltra a Berlino o Bruxelles. Sempre con quel suo spirito contraddittorio, capace di contenere moltitudini: dallo scintillio opulento di Santa Sofia o del palazzo Dolmabahçe allo struggente sguardo dei venditori di fiori in piazza Taksim, dei suonatori di strada, dei ruffiani che propongono night club ai turisti, o di ragazzini che mendicano con le scarpe rotte. Scrisse il giornalista stambuliota Ahmet Rasim: «La bellezza del panorama è nella sua tristezza».


Maurilio Barozzi - L'Adige, 6 maggio 2024







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