La prima volta che misi piede a l’Avana, mi ritrovai a passeggiare sulla via Zanja. Mi ci aveva portato un ragazzo elegante che si era spacciato per una guida turistica. Immaginavo perfettamente che chi ti avvicina richiamando l’attenzione sibilando dei «psssttt psssttt, hey, italiano?» non fosse stipendiato dall’Ufficio nazionale del turismo, eppure il suo aspetto curato lo distingueva dagli altri ambulanti, mendici, santoni o scrocconi di cui pullulavano le vie della città. Mi accompagnò in un anonimo bar del quartiere cinese lì a due passi, si fece offrire un mojito e magnificò quel bar dicendo che lì Wim Wenders ci aveva girato parti del film Buena Vista Social club. Erano tutte balle, che però, paradossalmente, rivelavano essenza autentica. Innanzitutto la natura dei cubani, meravigliosi attori improvvisatori, abili a inventare qualsiasi cosa su due piedi pur sbarcare il lunario. Ma anche l’essenza del quartiere cinese. Wenders a parte, il grande scrittore cubano Alejo Carpentier già nel 1940 raccontava come proprio il Teatro cinese godesse «del privilegio di essere, insieme a quello di Lima e a quello di Los Angeles, uno dei migliori d’America nel suo genere».
L’Avana è una delle città più suggestive al mondo. Fin dal primo sguardo, l’alternanza tra pareti a tinte coloniali e muri scrostati dei suoi palazzi rivela un passato fatto di fasti e di decadenze. I fasti di quando, a metà del 1500, era il principale porto dei Caraibi – “chiave del nuovo mondo” – e obiettivo delle scorribande di pirati di ogni credo. Ma anche i fasti di inizio Novecento quando, divenuta la sala giochi del bigottismo di facciata americano, era una delle città al mondo con più sale cinematografiche, teatri, bordelli e locali notturni, come l’arcinoto Tropicana che proprio in questo 2024 compie settantacinque anni: «Palcoscenico e pista da ballo erano a cielo aperto. Le ballerine sfilavano a sei metri da terra tra le cime di grandi palme, mentre riflettori rosa e lilla si muovevano sulla pista», lo affresca Graham Green ne “Il nostro agente a l’Avana”.
La decadenza, invece, stilla da un’attualità segnata da politica, embarghi e povertà che costringe i cubani a vivere con uno stipendio medio di 150 euro scarsi al mese (3.800 pesos) e vede i palazzi sbriciolarsi, devastati dalla salsedine e dall’incuria. Sotto il sole abbacinante, che già di buon’ora apre squarci di realtà inimmaginabili nella viva notte dell’Avana, si possono notare centinaia di case ridotte allo scheletro con le travi di sostegno in vista e i pavimenti sventrati, montati sopra fangaie. Gli acquazzoni tropicali lasciano, lungo le pavimentazioni rotte, pozzanghere d’acqua che rimane per ore immota fino a puzzare di marcio. «Sapete com’è la mattina presto là all’Avana, coi vagabondi che dormono ancora contro i muri dei palazzi prima che arrivino i furgoni col ghiaccio per i bar?» inizia il suo “Avere e non avere” Ernest Hemingway, che proprio l’Avana elesse a sua città di residenza.
Ma è nel tardo pomeriggio che l’Avana inizia a vibrare davvero, quando il tramonto varia «i suoi artifici,/ le sue cadute e impennate dell’arancio,/ per inabissarci in violetti profondi,/ come una cava che avesse divorato un palazzo», come evoca la poetessa Fina García Marruz. Nel romanzo “Il secolo dei lumi” Carpentier arde di passione descrivendo il pomeriggio nella città «simile, in quest’ora di riverberi e ombre lunghe, a un gigantesco lampadario barocco, i cui cristalli verdi, rossi, aranciati, colorassero una confusa roccaglia di balconi, arcate, cupole, belvederi e verande con persiane».
Proprio la letteratura – con la musica – è stata il vero strumento di consapevolezza, di lotta, di conoscenza dell’isola. «Il mio verso al valente aggrada:/ il mio verso breve e sincero,/ ha il vigore dell’acciaio/ con cui si forgia la spada», chiama alla rivoluzione José Martì. E proprio i suoi versi e la sua azione gonfiarono il cuore dell’identità cubana, che nel 1898 si rese indipendente dalla Spagna. Anni dopo – nella prima metà del Novecento –, il poeta creolo Nicolás Guillén ha descritto Cuba come un «lungo ramarro verde/ con occhi di pietra e d’acqua», desto e pronto a estrarre «l’unghie dall’atlante»: «Alta corona di zucchero/ le tessono acute canne;/ coronata ma non libera, anzi nel suo serto schiava:/ fuori dal manto, regina,/ ma dentro il manto vassalla;/ triste come la più triste». Furono i prodromi alla rivoluzione castrista che però ha generato a sua volta miseria e malinconia, interpretate oggi da due scrittori assolutamente differenti tra loro. Abilio Estévez – emigrato in Spagna – ne “I palazzi lontani” sottolinea lo spleen di una città senza stagioni. «L’Avana si trova a una latitudine esente da trasformazioni: hanno pensato di situarla nella parte immobile del mondo. E siccome è sempre la stessa e non conosce il cambiamento, la città appare sconfitta, distrutta, molto più di altre più antiche e ugualmente castigate dalla storia, benché non martirizzate da qualcosa di così funesto come l’immobilità».
Juan Pedro Gutierrez, habanero impenitente che si è fatto conoscere con “La trilogia sporca de l’Avana”, racconta invece una quotidianità animalesca, talvolta scaltra, picaresca e orgogliosa eppure sempre dolente. Che trova nel sesso l’ultimo, definitivo, rifugio.
Maurilio Barozzi - L'Adige, 1 luglio 2024