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Marangoni Pneumatici: lo sbarco in Brasile 06/05/2001

Aggiornamento: 14 lug 2023


Mucche a riposo sulla spiaggia di Goa

Il 24 aprile scorso, l’imprenditore roveretano Mario Marangoni è andato a Belo Horizonte a vedere il suo ultimo gioiellino: una fabbrica nuovissima che produce materiale in gomma per la ricostruzione dei pneumatici di autobus e camion destinata al mercato brasiliano. A dirigere Marangoni do Brasil è stato chiamato Gian Piero Zadra, anche lui roveretano, una laurea in Scienze politiche in tasca e poi l’impiego nel gruppo di Rovereto. Gian Piero Zadra, da un paio d’anni si è trasferito armi e bagagli da Rovereto a Belo Horizonte, nello stato del Minas Gerais, Brasile. Marangoni e i suoi delfini roveretani vanno all’attacco del mercato brasiliano? Abbiamo già acquisito il 35% del mercato europeo e, a questo punto, diventava difficile aumentare le quote di mercato. Per ingrandirsi il gruppo aveva necessità di trovare altre aree economiche di sviluppo. Ed è venuto fuori il Brasile. Le ragioni per le quali abbiamo deciso di puntare sul Brasile sono molteplici. Innanzitutto il Brasile possiede la più grande flotta al mondo di autobus (300 mila); e la seconda di camion (1.800 mila). Inoltre, ma le cose sono evidentemente legate, l’80% delle merci viaggia su gomma e, con la qualità della rete viaria brasiliana, la durata delle gomme è circa un terzo rispetto a quella della vita dei pneumatici del mercato degli Stati Uniti e dell’Europa. Per ogni pneumatico per autobus e camion, nel mercato al ricambio, in Brasile, si fanno due ricostruzioni (in Europa questo rapporto è meno di uno). E noi a Belo Horizonte operiamo proprio in questo settore, la ricostruzione attraverso la fornitura di materiale “prestampato” ai ricostruttori locali. Qualcuno vi ha fatto delle indagini di mercato per raccogliere questi dati e decidere dunque di investire in Brasile? A dire il vero noi avevamo già una collaborazione (decennale) con un competitor locale, con sede nel Minas Gerais. Attraverso questo rapporto abbiamo potuto sviluppare ulteriormente la conoscenza di questo mercato. A partire dal ‘97 abbiamo scelto di operare direttamente esportando il prodotto dall’Italia. Ed effettuando test di adeguamento, ci siamo preparati al mercato. Alla fine del ‘98 è stata quindi fondata la Marangoni do Brasil Ltda avvalendosi di una equipe di manager locali di provenienza del settore. Una buona palestra anche per lei, che ora amministra l’azienda. Sicuramente. Poi da agosto 2000 abbiamo iniziato la produzione locale, anche se l’inaugurazione effettiva è stata fatta il 24 aprile scorso con Mario Marangoni, il presidente del gruppo. Cosa fa esattamente Marangoni do Brasil? Produciamo un anello di gomma prevulcanizzato che poi viene applicata sui pneumatici usurati attentamente esaminati per verificarne la ricostruibilità e quindi preparati, rendendoli ancora perfettamente utilizzabili con prestazioni comparabili al pneumatico nuovo. Però, viste le cifre che dicevamo prima, questo mercato non era già sviluppato? Detta in maniera un po’ volgare: non mi dirà che con quel parco automezzi aspettavano proprio che arrivaste voi, da Rovereto, per risolvere i loro problemi? L’ho già detto. In Europa avevamo già il 35% del mercato. Dal nostro punto di vista dovevamo espanderci. Chiaro, il mercato era già fiorente, ma noi, grazie alla tecnologia del gruppo, utilizziamo un sistema innovativo, chiamato “ringtread”. Un vero e proprio anello di gomma prestampato che possiede già le misure ed i disegni battistrada per i pneumatici di camion e autobus. Eppoi va tenuto in conto che c’è molto spazio: il Brasile è il secondo mercato al mondo, subito dietro gli Usa e davanti all’Europa continentale, complessivamente considerata. Quello era lo spazio giusto per un investimento. Ma il Brasile non è un mercato protetto? E’ vero, per questo produciamo là. Tutto quanto è destinato al loro mercato deve essere prodotto in Brasile, altrimenti è sottoposto ad imposte di ingresso elevatissime. E, tra parentesi, abbiamo trovato una situazione di professionalità davvero elevata, a dispetto dei pregiudizi. Dunque voi avete deciso di provare quell’esperienza. Senta Zadra, una delle maggiori critiche che vengono mosse agli imprenditori che vanno a produrre in paesi cosiddetti del Terzo mondo, è quella di sfruttare il basso costo del lavoro. Che dice? Dico che per noi non è così. E non è così per chiunque dall’estero vada a produrre in Brasile, che è la realtà che conosco. Il costo finale del prodotto, infatti, è più o meno lo stesso tra Brasile e Italia. Quanto guadagna un vostro operaio, là, ogni mese? Un operaio non specializzato percepisce un salario pari a circa 400, 450 mila lire. A noi costa attorno alle 800 mila lire, a cui si devono aggiungere spese di assicurazione sanitaria privata a completamento di quanto offerto dallo stato. Ci sono minimi sindacali? Sì, esiste il cosiddetto salario minimo, che è oggi di 180 reais, 180 mila lire, ma noi operiamo in linea con il mercato del lavoro, con i salari pagati dalle altre aziende locali e multinazionali presenti. Con quella cifra in Brasile come si vive? A fatica. Pensi che una Fiat Punto, prodotta da Fiat do Brasil (anche quella con produzione insediata a Belo Horizonte), costa comunque 18/20 milioni. Allora non si vive. E’ dura. Anche se i generi di primissima necessità sono molto più economici rispetto all’Italia. La carne, verdura e frutta costano meno. Però la gioia di vivere, l’orgoglio e la dignità che caratterizzano i brasiliani che abitano questa regione tra le più sviluppate in Brasile, e il clima caldo ma non torrido rendono la loro vita a volte invidiabile agli occhi di un nativo di un paese del primo mondo. Insomma… mangiano. E voi, che pensate? Noi abbiamo fatto un investimento economico. E poi le ho detto che alla fine per noi il costo è comunque alto per via di altre sottovoci che pesano in modo determinante sul prodotto finale. Se un operaio a voi costa così, quali sono le sottovoci che incidono sul prodotto finale, visto che prima sosteneva la parità dei costi di produzione nei due stati, Italia e Brasile? In altre parole: chi ci guadagna, appurato che non è chi lavora? Lo stato, con tasse altissime su tutti i prodotti importati. Poi ci sono I grandi gruppi industriali che operano là dai quali si è obbligati, nei fatti, ad acquistare le materie prime. Una forma di monopolio o oligopolio che fa lievitare i costi e perdere gli eventuali vantaggi della manodopera a costo contenuto. Però mi permetta di aprire una parentesi. Prego. I costi della manodopera sono bassi per gli operai di primo livello; ma i quadri intermedi e le professionalità più ricercate sono in tutt’altra condizione. E la vostra suddivisione, qual è? Oggi abbiamo impiegate una cinquantina di persone, molti dei quali sono operai. Ma ci sono anche necessariamente quadri e professionisti specializzati. Tutti brasiliani? Sì. Tranne me. Attualmente quanto producete e fatturate? Al 2001, dopo circa un anno di vita, la situazione è di 50 persone occupate, 15 miliardi di lire circa di fatturato e 3 mila tonnellate di prodotto. E a regime cosa prevedete? Puntiamo a 10 mila tonnellate di produzione, pari al 10-12% del mercato brasiliano. Prevedendo di riuscire ad impiegare 150 persone e di creare altrettanti posti di lavoro indotto, fatturando attorno ai 50 miliardi di lire. Quando? Entro il 2005. Tenga presente che abbiamo impiantato là una fabbrica dotata di tecnologia altamente sofisticata, di alto livello. Lei, che ormai risiede da un paio d’anni in Brasile, pensa davvero che quello stato possa avere uno sviluppo economico? Ne sono sicuro. Già oggi il Brasile è un paese che cresce al 4% all’anno ed occupa il decimo posto nella classifica mondiale delle economie, ma il suo potenziale è certamente maggiore. Non fosse altro che per una questione di mercato. Una volta che anche le classi oggi più umili potranno rappresentare un’importante domanda di beni di consumo e le disparità sociali diminuiranno, il Brasile potrà contare su un mercato fatto di 170 milioni di abitanti. E un grande gruppo, sui grandi mercati, deve esserci. Maurilio Barozzi (L’Adige, 6 maggio 2001)

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