Le origini di 'Bartleby lo scrivano' in una lettera di 150 anni fa
Da principio fu una lettera. Breve, poco più di due pagine. Herman Melville la scrisse al suo caro amico Nathaniel Hawthorne (quello della Lettera Scarlatta, per intendersi) giusto centocinquanta anni fa, il 16 aprile 1851. Era un mercoledì mattina. Oltre che per una serie di perle disseminate qua e là (ad esempio una che mi sembra splendida, riferita ad un libro: «ci ha derubati di un giorno, e regalato un anno di meditazioni»), questa lettera è fondamentale per tutto ciò che poi sarà la base di molta psicologia moderna: la formazione della personalità attraverso la capacità di dire no.
Scrive Melville che «tutti quelli che dicono sì, mentiscono; e tutti quelli che dicono no — beh, essi sono nella felice condizione dei giudiziosi viaggiatori in Europa che non si portano dietro impicci; attraversano le frontiere dell’Eternità senza nient’altro che una semplice borsa, vale a dire l’Io». Preziosa, quella borsa.
Mi rendo conto: se fosse rimasta solo così, forse, non avrebbe lasciato un gran segno. Una bella strisciata d’inchiostro in un mare di cose scritte… Il fatto è che Melville, a partire da questo concetto — saper dire «no» —, ha costruito uno dei più bei racconti che siano mai stati pubblicati: Bartleby lo scrivano.
La vicenda è nota. Un magistrato della Corte di equità assume uno scrivano, Bartleby, che dapprima lavora a pieno ritmo ma d’un tratto inizia inspiegabilmente a rifiutarsi di eseguire gli ordini opponendo con decisa dolcezza la frase «preferirei di no». Il magistrato, nonostante tutto, non riesce a licenziarlo né a liberarsene (come fosse una coscienza) tanto da decidere di traslocare lui stesso, per staccarsi di dosso quella scomoda presenza. Lo scrivano rimarrà solo nelle stanze dello studio fino a quando, arrivati i nuovi inquilini, la polizia lo rinchiuderà con l’accusa di vagabondaggio. In carcere, Bartleby preferirà non mangiare, lasciandosi morire.
Quella figura enigmatica che, spinta da un suo qualche motivo — incomprensibile a noi lettori —, rinuncia a fare lavori per i quali è pagato. «Lo chiamai, spiegandogli rapidamente quel che volevo facesse, cioè esaminare con me un breve atto» dice l’anziano magistrato, narrando la storia del suo scrivano. «Preferirei di no», risponde Bartleby. Da lì inizia il refrain che lo accompagnerà fino alla morte. Eppure anche morto, Bartleby vive. Certo, non è più un uomo, ma diventa un fantasma che ha insinuato il tarlo del dubbio nel vecchio magistrato che ne racconta la vicenda. Con i suoi misteriosi rifiuti, Bartleby ha fatto traballare tutte quelle che erano state fino ad un istante prima le certezze che il leguleio aveva, fondate sulla supposizione che fossero indiscutibili perché largamente accettate. Ma Bartleby «era uomo di preferenze, più che di supposizioni», si rende conto il magistrato. Insomma, era capace di scegliere secondo una sua propria indipendente — e imperscrutabile — scala di valori. Ed è proprio tale caratteristica, evidenziata dall’apparente assurdità (apposta mai svelata), a determinare la sua libertà. Facendo assurgere Bartleby a prototipo dell’uomo libero. Tutto nacque là, a Pittsfield, Stati Uniti, 150 anni fa.
Non è finita.
Questo racconto, e la lettera ad Hawthorne che lo anticipa di un paio d’anni, sono un elogio alla relatività, alla molteplicità dei punti di vista, al rispetto e alla rinuncia a voler capire sempre e comunque l’atteggiamento degli altri, riducendolo a schemi intellettuali che sono i nostri, non necessariamente universali.
Altro bel tema, no? Tipicamente novecentesco. Eppure scritto a metà Ottocento.
Nella missiva all’amico scrittore, Melville lo sviluppa in termini di segreti e verità: «Può darsi che costui perisca, ma finché esiste insiste a trattare con tutti i potenti su una base di parità. Se uno di questi potenti vuol mantenere certi segreti, faccia pure; ciò non compromette la mia sovranità su me stesso, non mi rende tributario. E forse, dopo tutto, non c’è nessun segreto». (ho leggermente modificato la traduzione corrente, ma il senso è completamente inalterato n.d.r.). Dunque, fermi tutti! — sembra voler dire Melville — Smettiamola di voler entrare SEMPRE nei segreti degli altri così da poterli ridurre ai nostri schemi di comprensione. Motivo che salta sempre fuori, poi, anche nel Bartleby: i muri che circondano l’ufficio; il paravento dietro il quale lo scrivano lavora (un confine di segretezza da non violare); il rovistare nel cassetto di B. da parte del magistrato (che però non troverà nulla che possa spiegargli l’atteggiamento dello scrivano: «forse, dopo tutto, non c’è nessun segreto», ricordate?). Ma la soggettività delle vite umane viene fuori soprattutto nel precedente impiego di Bartleby, l’unica cosa che di lui si sa: impiegato (poi licenziato a causa di un rimpasto politico) nell’ufficio delle lettere morte, cioè di quelle che, giunte a destinazione, non trovano più il loro destinatario. E devono così essere bruciate. Lettere dalle quali sbucano soldi che avrebbero dovuto dar da mangiare a qualcuno ormai morto di fame; alcune righe di perdono per chi se n’è andato nel rimorso; una frase di speranza scritta a chi nel frattempo è sparito, disperato. Lettere che contengono l’ultima, grottesca e tragica, incomprensione. In fondo, è così difficile capire cosa realmente vuole, cosa realmente spera l’essere umano. E sarebbe così facile — viceversa — ogni tanto rinunciare a volerlo capire a tutti i costi.
(Tra parentesi. Ho trovato traccia di una versione del Bartleby precedente a quella pubblicata (poi tagliata, ma custodita in un foglietto volante dalla sorella minore dello scrittore). Lì Melville racconta le ultime ore di dello scrivano: spiegava come la sua condizione alle tombe (le carceri di New York si chiamavano Tombe) fosse particolare, senza grosse restrizioni. Una specie di sistemazione provvisoria in attesa di una stanza all’ospizio. Soprattutto, per descrivere la cella, usa una frase che mi ha molto colpito: «Era pulita e ben illuminata». Ma un posto del genere rappresenta tutto ciò che cercava — incomprensibilmente per gli altri — il cameriere protagonista dello splendido racconto di Hemingway che porta più o meno lo stesso titolo. Interessante, vero? Ma questo, magari, lo vediamo a luglio, ricordando i 40 anni dalla morte di Hemingway).
(L'Adige e Il Mattino, 17 aprile 2001. Prima pagina)
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